ABASCIA
R III 38 4; R III 39 0; R III 39 1; R III 39 6.
Abasc(i)e, Abas(i)e F; Abasce L; Abascia P; Abasa, Abasse, Abaste, Amabat, Anabat V; Alba(l)xia VA; Abesia, Abis(s)ia VB; Abas, Abasce Z.
BIBLIOGRAFIA – Asher 1907, pp. 95, 145-146; Cardona 1975, pp. 525-529; Cerulli 1943, p. 58; Conti Rossini 1940; Ferreira Reis Thomaz 2002; Jorga 1910; Pelliot 1959-1973, pp. 6-7 n. 3; Tedeschi 1981.
Il lemma (< ar. ḥàbašah), impiegato nel Milione come sinonimo di “India Mezzana” (vd. la voce India), indica il regno etiopico (dal 1270 retto da sovrani salomonidi), sul quale verosimilmente Polo assunse informazioni negli scali dell’India e del Golfo Persico, durante il viaggio di ritorno nel 1293 (Conti Rossini 1940, pp. 1021-1022; Tedeschi 1981, pp. 362-363). Polo racconta che i cristiani d’Abissinia portano impressi sul volto tre segni (di cui non specifica la forma), gli ebrei due e i musulmani uno. La notizia secondo la quale i monofisiti etiopici usavano imprimersi dei marchi a fuoco sul volto (le cd. “focature”) aveva iniziato a diffondersi in Europa tramite i racconti dei crociati e dei pellegrini in Terra Santa: tra le prime testimonianze bisogna segnalare quella di Oliviero di Paderborn (XIII in.), il quale, nella Historia Damiatina, distinguendo gli Etiopi (ovvero “nubiani”) dagli altri monofisiti (ovvero, con definizione fortunata nel tempo, “giacobiti”), scrive che «Nubiani soli parvulis suis karacterem crucis ignito ferro trifariam in fronte altrinsecus iuxta oculos imprimunt» (Cerulli 1943, p. 58). Nel 1540 il missionario portoghese Francisco Alvarez informa che quei segni erano prodotti non da ferri arroventati ma da lame: vd. Tedeschi (1981, pp. 369-370). Per quanto mi è noto, Polo è l’unica fonte cristiana in cui si faccia riferimento ad analoghi segni impressi sui volti dei musulmani e degli ebrei della regione: non ne parla Binyamin da Tudela (seconda metà del XII sec.: la fonte più antica sugli Ebrei etiopici – vd. l’ed. Asher 1907, pp. 95, 145-146); del resto, la legge mosaica (Levitico, 19 28) vieta l’impressione di tatuaggi sul corpo umano. La sede di residenza del re abissino si trova, secondo Polo, al centro della provincia. Nel 1270, Yekuno Amlāk, capostipite della dinastia salomonide, pose la capitale del neonato impero etiopico a Tegulet, nello Shoa. Secondo un itinerario in latino databile all’inizio del Quattrocento (probabile opera del viaggiatore fiorentino Andrea Bartoli) il Prete Gianni a quell’epoca trascorreva metà dell’anno in una città il cui nome coincideva con quello della regione in cui era situata: Sciahua, vale a dire lo Shoa (Jorga 1910, p. 147). Polo afferma che il re d’Abissinia governa su sei re, tre cristiani e tre musulmani. Le fonti posteriori concordano quanto alla presenza nel regno di una serie di re di entrambe le religioni (dal numero variabile secondo ogni fonte), asserviti a un re supremo. Le notizie poliane sulla forza militare del re d’Abissinia risultano interessanti in quanto dovettero essere utili a consolidare l’identificazione di quel monarca con il Prete Gianni: tale identificazione è attestata per la prima volta nel 1310 ca. (Ferreira Reis Thomaz 2002, pp. 132-133). Secondo Polo l’Abissinia era spesso in guerra contro il «soldano di Adem» e contro «li popoli di Nubia»: numerosi studiosi concordano nell’identificare il «soldano di Adem» con il sovrano arabo di ‘Adal, ossia l’Abissinia islamica che si estendeva a O di Zeila, nell’odierna Somalia N (Tedeschi 1981, pp. 371-372); Conti Rossini (1940, p. 1028) suggerisce di identificare i popoli nubiani qui evocati con il regno che nelle fonti abissine prende il nome di Soba Noba, il quale, fondato nel VI secolo, aveva la capitale a ‘Alwah. Una buona parte del referto poliano è impegnata nel racconto della guerra, datata al 1288 (vd. la nota a R III 39 9), fra il re d’Abissinia e il sultano di Adem, generata da un gesto di sfregio di quest’ultimo (la circoncisione di un vescovo abissino). L’episodio – che andrebbe collocato durante il regno di Yekuno-Amlāk (1270-1284: promotore, al contrario del figlio Yāgbe’a-Seyon [1285-1294], di un’aggressiva politica antimusulmana interna ed estera – vd. Conti Rossini 1940, pp. 1024-1025; Tedeschi 1981, pp. 377-378) – contiene molti dettagli implausibili. Non siamo a conoscenza di sovrani etiopici che abbiano manifestato l’intenzione di recarsi personalmente in pellegrinaggio presso il Santo Sepolcro, dove era collocata una cappella etiopica (l’informatore di Polo doveva essere al corrente dei frequenti pellegrinaggi e della devozione dei religiosi etiopi); è pure difficile stabilire quale fosse il rango effettivo del dignitario ecclesiastico inviato dal re. Tedeschi (1981, p. 378) mette in dubbio che egli fosse un “vescovo”: propriamente parlando, l’unico “vescovo” del regno era il metropolita, il quale, nominato dal capo della chiesa copta, era tenuto a non uscire dai suoi confini fino alla morte. Ciò detto, anche nelle notizie sul paese del Prete Gianni prese in occasione della visita di alcuni Etiopi ad Avignone nel 1310 si legge che questi sarebbe stato circondato da centoventisette “arcivescovi” (Ferreira Reis Thomaz 2002, p. 133). Si noti inoltre che è tutto il passo a essere caratterizzato dall’impiego di termini e particolari incongrui rispetto ai costumi e alla tradizione etiopica: in quanto i cristiani sono circoncisi, l’affermazione di Polo sul carattere oltraggioso del gesto sultano è priva di senso (Tedeschi 1981, pp. 378-379). Assieme all’idea secondo la quale San Tommaso avrebbe predicato in quelle regioni, tale incongruenza suggerisce che l’informatore di Polo fosse un cristiano (forse nestoriano) ignorante delle tradizione etiopiche. La cattura e l’oltraggio del vescovo sono collocati ad Adem, località che Tedeschi (1981, pp. 380-386) identifica nella regione di Adam, situata tra il delta del Barka a N e il confine settentrionale dell’odierna Eritrea a S e controllata dalle tribù Begia: l’intera vicenda potrebbe allora ridursi a una rappresaglia organizzata da Yekuno-Amlāk contro i Begia in seguito a un episodio sanguinoso contro alcuni suoi sudditi.
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