CAIRO
Anchasa V; Achate VA; Cairo, Chaiero VB; Alochayray Z.
BIBLIOGRAFIA – Burgio c.s.; Burgio, Eusebi 2008; Cardona 1975, p. 550; EI2, II, pp. 957-959; Evans 1936, p. 19; Falchetta 2006; Jacoby 1995, p. 276; Lanza 1990a; Lanza 1990c; Pelliot 1959-1973, p. 61 n. 44; Prawer 1970, pp. 22-23; Yule, Cordier 1929, II, p. 438.
Il nucleo originario della capitale egiziana fu la città fortificata, eretta nel 969 come residenza dell’Imām fatimita, e chiamata al-madīnat al-qāhira “città conquistatrice”. Nel 1179 Saladino (dal 1171 signore sunnita dell’Egitto) concepì il progetto di racchiudere in una sola cinta muraria il C. e al-Fusṭāṭ (la cittadella fondata nel 639 sulla riva E del Nilo dopo la capitolazione del borgo greco-copto noto come Babilonia): al-Fusṭāṭ era cresciuta in età fatimita come una delle più ricche città del mondo musulmano, ma sotto i Mamelucchi cadde nell’oscurità, soppiantata dal C., che godette di una crescita impetuosa della popolazione e delle ricchezza dei suoi mercati, descritte anche dagli occidentali (Simone Sigoli, mercante fiorentino che nel 1384-1845 fu in pellegrinaggio in Terrasanta, insieme a Lionardo Frescobaldi e Giorgio Gucci, registrava che «[…] la città del Cairo è lunga dodici miglia e più, gira intorno trenta miglia e non è murata, ma dalle due parti corre il fiume del Nilo, dalla terza parte è affossata, e le case de’ cittadini altissime per iscambio delle mura. Dissemi uno cristiano, il quale ha nome Simone di Candia, ch’era quivi per mercatantia, che nella detta città del Cairo avea trenta centinaia di migliaia di persone e più, de’ quali ve n’avea più di cinquanta migliaia che non hanno né casa né tetto dove albergare; dormono la notte su per le panche, perocché non vi piove mai, e havvi sempre caldissimo caldo» – Lanza 1990c, par. 70). Nella prima delle due occorrenze del toponimo (R I 6 1) Ramusio ripete l’errore della sua fonte, Z, come risulta da Alochayray in Z 5 4: toponimo che scioglie, in un gioco di interferenza tra latino e volgare, l’indicazione del modello francoit. «au Catai» (F XXIII 4); la seconda occorrenza (R III 40 3) è legata al riuso di VB CLXV 3-5, passo che – nonostante la valutazione di Pelliot – si fa fatica a considerare originale. L’ipotesi della sua apocrifia si sorregge su alcuni fatti (vd. Burgio c.s.): (1) il passo di VB è più preciso (per maggiori dettagli) della corografia riferita dagli altri relatori, ma non proviene dall’esperienza diretta di Polo, che non si spinse mai a O di Hormuz; e (2) è isolatamente attestato da un relatore marginale nella tradizione (vd. Burgio, Eusebi 2008, e qui l’Introduzione, par. 2); (3) il suo contenuto pare venire dalla citazione dal Liber Secretorum Fidelium Crucis di Marino Sanudo Torsello, il Vecchio (1270 ca.-post 1343): «illæ speciariae, et mercimonia quae de partibus Indiae ad portum ipsum [di Aden] descendunt, ibi honerantur et inde per terras Saracenorum in novem dietis cameli ad flumen Nili conducuntur in locum vocatum Chus, et inde navigio ipsius fluminis, et honorantur [sic] et in dietis XV, in Babylonem conducuntur. Tempore vero mensis octobris et circa flumen illud habundat in tantum, quod ipsæ speciariæ et mercimonia descendentia a Babylonia per dictum flumen, intrant per quandam tagliatam longam et per ducentas miliaria, quæ sunt a Babylonia usque in Alexandriam deferuntur. Per magnam vero commoditatem navigii sive dextrum, quam vel quod habent Saraceni, maior pars speciariæ et aliorum mercimoniorum, quæ ab India conducuntur ad Occidens, ab ista parte in Alexandriam conducuntur» (I 1 1: Prawer 1970, pp. 22-23). (4) Sanudo utilizzò informazioni di prima mano per un trattato (presentato a Giovanni XXII nel 1321) il cui obbiettivo era proporre una nuova Crociata (per restituire alla Christianitas, con l’aiuto della Serenissima, la Terrasanta perduta dopo la caduta di Acri nel 1291), che facesse leva sul blocco delle attività commerciali dei signori mamelucchi occupando militarmente il Delta; da qui l’interesse per la geografia nilotica, che alla fine del Duecento (in piena proibizione papale di commerci con l’Egitto, e di sfruttamento delle rotte asiatiche terrestri: vd. la nota a Nilo) non doveva avere alcun interesse per un mercante come Polo (peraltro, prima della rottura delle relazioni commerciali conseguente ai fatti del 1291, un accordo del 1254 – vd. la nota a calizene – permetteva eccezionalmente ai mercanti veneziani di Alessandria di raggiungere il C., «ma non disponiamo di informazioni circa le condizioni del loro commercio in quella città»: vd. Jacoby 1995, p. 276). La situazione mutò significativamente verso la metà del Trecento, quando le relazioni diplomatiche e commerciali con il sultano d’Egitto ripresero con rinnovato vigore (e quindi la geografia nilotica poteva risultare interessante per il redattore di VB). Di questo dinamismo resta traccia evidente nella distribuzione cronologica dei toponimi: (1) come registra Cardona, i relatori più antichi del Milione usano «Babilonia» – vd. i passi corrispondenti a F CXCIII 7, F CCXI 5 (Babelonie), F XII 6 (Babeloine), F XCI 4 (Babilonie) –, per indicare non la città ma l’intero Egitto; ed è notevole il fatto che Sanudo utilizzi ancora il «Babylonia» per designare la città; (2) le attestazioni di «Cairo» si infittiscono dopo il primo terzo del XIII secolo: «Cairo di Bambillonia» / «il Cairo» è l’uso di Francesco Balducci Pegolotti (fl. 1310-1347) nel passo della Pratica della mercatura cit. nella nota a zerme; «Cairo di Babilonia» ricorre in Niccolò da Poggibonsi (CLXX 1: Lanza 1990a), «Cairo» nella descrizione qui trascritta di Sigoli; «Chaiero» è grafia abituale nelle scritture quattrocentesche (lo ritroviamo nei cartigli del Mappamondo di Fra Mauro, 1448-1453, oggi presso la Biblioteca nazionale Marciana: vd. i punti *355, *881, *927 nell’ed. Falchetta 2006). Quanto basta per confermare, anche sotto questo profilo, la natura interpolatoria del testo di VB (come già sospettavano Yule, Cordier 1929, II, p. 438).
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