ZEILAN

R III 19 0; R III 19 1; R III 20 1; R III 20 3; R III 23 0; R III 23 1; R III 23 2 (Zeilam); R III 23 9; R III 23 11.

S(e)ilan F; Seilam, Seilan L; Seilam, Seylam P; Salam, Silan V; S(el)ilan, Stinan VA; Se(i)mal, Serl(l)an Silan VB; Seillam, Seylan, Seylam Z.

BIBLIOGRAFIA – Choksy 2004; EIt, s.v. «Ponte di Adamo», «Sri Lanka»; Gadrat 2005, p. 255; Graf 2002, pp. 62-64; Hirth, Rockhill 1965, p. 73; Ménard 2001-2009, VI, p. 127 nota 168, 6-13; Tresso 2006, pp. 659-665; van den Wyngaert 1929, p. 454, pp. 535-539.

Isola dell’Oceano Indiano, corrispondente all’odierno Sri Lanka (in sanscrito “terra risplendente”; detta anche Silandiva, Senendiva, Simhala-dvipa, “isola dei gioielli”, da cui l’arabo Sarandîb, Choksy 2004, p. 181) è collegata al subcontinente indiano dal cosiddetto Ponte di Adamo (o di Rama), «residuo di un antichissimo istmo che congiungeva l’isola […] con l’India, nell’attuale golfo di Mannar» (EIt, s.v. «Ponte di Adamo»). Il nome Sēlān dipende dai conquistatori arî, i Sinhala, mentre è incerta l’identificazione con l’antica Taprobane (Abeydeera 1994; Choksy 2004, p. 181). Nel XIII sec. il N dell’isola divenne sede di un regno tamil, mentre al S era radicato un più antico regno singalese; durante la loro storia le signorie locali dovettero fare i conti con continui attacchi da parte delle dinastie del Maabar almeno fino a quando, all’inizio del XVI sec., l’isola fu raggiunta dai Portoghesi (EIt, s.v. «Sri Lanka»).

Marco Polo, che fu tra i primi viaggiatori a darne notizia, dedica a Z. due capitoli, R III 19 e R III 23; nel primo, dopo averne indicato la posizione, spiega che le dimensioni dell’isola sono mutate in seguito a sconvolgimenti naturali; secondo Ménard (2001-2009, VI, p. 127) la fonte «semble relever d’une tradition très ancienne, dont se sont faits l’écho aussi bien des Arabes que des Chinois». Seguono un elenco delle ricchezze del luogo, soprattutto le pietre preziose, e il racconto di una spedizione per ottenere un enorme rubino di proprietà del re, rimasto tuttavia inesaudito oggetto di desiderio da parte di Cublai. R III 23 contiene una dettagliata descrizione dello Sri Pada, montagna sacra nel SO dell’isola, sulla cui sommità si trova il calco di un piede attribuito ad Adamo da musulmani e cristiani, a Sogomonbarchan dai buddhisti, a Siva dagli induisti (alcuni cristiani ritengono che l’impronta sia di San Tommaso: Tresso 2006, pp. 662-663 nota 47). Segue il racconto della vita di Sogomonbarchan. Secondo Graf (2002, p. 62) siamo di fronte a una «credenza buddistica trasformata da maomettani […]. Credevano, e credono ancora i buddisti, che il Budda soggiornò alcun tempo sopra un monte […], chiamato Langka dai bramani del continente; che quivi menò vita contemplativa; e che sollevandosi poi al cielo, lasciò nella rupe la impronta del proprio piede, visibile a tutti. I maomettani […] riferirono ad Adamo quanto si narrava del Budda, e le due tradizioni continuarono a vivere l’una accosto all’altra». Il monte venne chiamato dagli Arabi Rahun, «e il primo loro scrittore che abbia fatto ricordo della leggenda sembra essere stato Suleymân Edrîsi, […] nel 1154 […]. A suo dire, narrano i bramani esservi sulla vetta del monte l’impronta del piè di Adamo, lunga settanta cubiti e luminosa. Da quel punto, con un passo, Adamo giunse al mare, ch’è lontano due o tre giornate. Dicono inoltre i maomettani che Adamo, cacciato dal Paradiso, cadde nell’isola di Serendib […], e quivi morì, dopo aver compiuto un pellegrinaggio al luogo dove poi doveva sorgere la Mecca».

L’abbondanza di pietre preziose, la ricchezza del re e il Picco di Adamo sono elementi ricorrenti nelle descrizioni dei viaggiatori successivi a Polo. Odorico da Pordenone aggiunge la notizia di un lago formato dalle lacrime di Adamo ed Eva (ed. van den Wyngaert 1929, p. 454). Jordan Catala de Sévérac, che si sofferma quasi esclusivamente su due rubini del re, presenta un’annotazione («Inter quos habet rubinos duos, quorum unum tenet ad collum appensum, et alium in manu, cum quo tergit labia et barbam», ed. Gadrat 2005, p. 255) che ricorda un addendum esclusivo di VB CLXII 11 («Et io Marcho Polo fui uno di anbassatori e viti con i ochi mei el dito rubino: et tignandolo quel segnore nel pugno lo i avançava de ssoto e de sopra al pugno, el qual segnore se menava quello per sopra i ochi e sopra la bocha»). Gadrat 2005 segnala la presenza dello stesso motivo nel racconto del viaggiatore Chau Ju-Kua (ed. Hirth, Rockhill 1965, p. 73: «The king holds in his hand a jewel five inches in diameter, which cannot be burnt by fire, and which shines in the (darkness of) night like a torch. The king rubs his face with it daily, and thought he were passed ninety he would retain his youthful looks»). Ibn Baṭṭūṭa, che a Z. dedica un’ampia “scheda”, riferisce il proprio pellegrinaggio al sepolcro, confermando alcune informazioni poliane (ed. Tresso 2006, pp. 659-665), come fa in parte pure Giovanni de’ Marignolli (ed. van den Wingaert 1929, pp. 535-539).

[SS]