MALABAR

Maabar R I 14 10; R I 14 12; R III 19 11; R III 20 0; R III 20 1; R III 20 3; R III 20 20; R III 20 60; R III 20 68; R III 21 1; R III 22 7; R III 23 11; R III 24 1; R III 25 1; R III 33 5; R III 36 11; R III 38 2; R III 39 7.

Ma(a)bar F; Mahabar L; Maabar, Meabar, Nar, Var P; Amabat, Maabran, Mabat, Manbut, Meabore, Nalabat, Neabat V; Maabar VA; Maabar VB; Maabar, Maagabar Z.

Melibar R III 28 0; R III 28 1; R III 28 9; R III 28 11.

Melibar F; Melibar L; Melibar P; Milinbar V; Melibar, Mellibar VA; Malibar VB; Melibar Z.

BIBLIOGRAFIA – Cardona 1975, pp. 655-656, 667; EI2, VI, pp. 190-191; Hall 2000. – (sulla ierodulia) Apffel Marglin 1994; Grossato 1994, p. 30; Nilakanta Sastri 1957, p. 118; Scialpi 1989, p. 57.

Ramusio usa il toponimo per indicare due realtà geografiche distinte. (a) La fascia costiera del Tamil Nadu (India SE) a N di Kodikkarai (Point Calimere) nota come Coromandel (< tamil Chola mandalam, “regione mandalam – dei Chola”, dinastia locale tra IX e X sec.), che Arabi e Cinesi tra XIII e XIV sec. chiamavano Ma‘bar “guado” (designazione attestata con varianti nel resto della tradizione poliana); già nella tarda antichità era uno snodo essenziale dei commerci tra Asia (Cina) e Levante islāmico (per la qualità del suo pepe nero e di altre spezie; per la comodità dei suoi porti, dove dalla fine del X sec. approdavano le giunche della Cina Song; per l’importanza della sua industria navale: vd. Hall 2000, con bibl.). (b) Il Melibar di F etc.: la regione del subcontinente indiano in cui si produceva il pepe, oggi corrispondente approssimativamente allo stato del Kerala. Il lemma (di etimologia discussa), nelle sue varianti Manībār / Malībār è attestato sin dal secolo XI nelle opere dei geografi arabi. La forma arabo-persiana (non usata dalle popolazioni autoctone, che preferiscono Malayam) ebbe presto larga diffusione sia in Europa (è attestata in Giovanni da Montecorvino nel 1293) sia nella Cina del periodo Ming sin dal XIII secolo. Grazie ai contatti tra mondo arabo e Malabar, risalenti a ben prima dell’epoca islamica, nella regione vi è il più antico insediamento musulmano del sub-continente indiano.

[AG, EB]

La scheda poliana su (b) è una delle più ricche di informazioni etnografiche: tra l’altro, sui Bramini, sui gavi, e sulle damigelle offerte agli dèi dai loro genitori, ovvero le devadâsî “serve sacre”, fanciulle votate alle attività cultuali nei templi dell’India (vd. Nilakanta Sastri 1957, p. 118). Marco Polo descrive con esattezza e in modo particolareggiato «una celebrazione rituale con danzatrici seminude che si esibiscono dinanzi alle immagini d’una coppia divina per favorirne [...] la riconciliazione» (Grossato 1994, p. 30). Con il loro intervento, le ballerine sacre pervengono a rappattumare i coniugi divini incolleriti. La loro performance cerimoniale – canora e verisimilmente coreutica – ristabilisce la concordia tra gli dèi, assicurando così la felicità degli uomini.

I ragguagli radunati da Marco Polo su queste «donzelle» sono pienamente confermati da quanto sappiamo per altra via dall’antropologia culturale e dalla storia delle religioni (vd. la sintesi di Apffel Marglin 1994). Le “serve sacre”, che formano grandi congregazioni, sono effettivamente esperte nel canto e nella danza: a Puri, nell’Orissa, le devadâsî del sacrario di Jagannâtha rappresentano l’immagine vivente di Laksmî, sposa di Jagannâtha. Strettamente collegata con le energie generative della Terra, dispensatrice di beni e feracità, nutrice di tutti gli esseri, Laksmî è una personificazione della Grande Madre (vd. Scialpi 1989, p. 57). Le devadâsî, in quanto incarnazioni di Laksmî, signora dell’abbondanza, ne raffigurano gli attributi e i prestigi: le ballerine sacre che suonano e danzano nel tempio ornate di preziosi paramenti sono una manifestazione della ricchezza della dea. Nel testo marcopoliano è l’esibizione canora delle fanciulle, coperte soltanto da un perizoma, a ricomporre l’armonia e a garantire la prosperità della società umana. Questa funzione delle devadâsî è ben nota: le fanciulle consacrate agiscono per il benessere generale, assicurano la fertilità delle colture, favoriscono gli affari, portano pace e opulenza ai regni. Ancora: in India, le “serve della dea” non vanno a vivere in comunità ma continuano a risiedere nelle loro case («et dipoi ritornano a casa sua»), recandosi al tempio per officiare i riti cui sono preposte. Come si vede, tutto quanto riferisce il viaggiatore veneziano trova puntuale riscontro nella documentazione etnografica.

Sono assenti in Ramusio le informazioni di Z 107 83 sull’aspetto fisico e sulla disponibilità erotica delle devadâsî. Tale notazione allude in modo abbastanza chiaro a pratiche di ierodulia: le danzatrici addette al culto sono in pari tempo cortigiane templari, prostitute sacre dedite a riti di carattere sessuale. Z, è vero, non parla esplicitamente di rapporti intimi con le “serve della dea”, ma ricorda che i visitatori del tempio, dando un obolo, possono palpeggiare ad libitum i corpi delle ragazze. Il dato s’inserisce entro un insieme istituzionalizzato e rituale di attività sessuali connesse con il culto (vd. Apffel Marglin 1994, p. 268). Dunque in R mancano proprio i dettagli più scabrosi del dossier marcopoliano sulle devadâsî, o perché Ramusio non li trovò nella sua fonte (il codice Ghisi) o perché decise di escluderli sospettandoli spuri, ma è anche possibile, anzi probabile, che qui abbia agito un certo scrupolo moralistico o persino una vera e propria istanza censoria.

[AB]

(a)

(b)