4. Ramusio curatore dei «Viaggi di Messer Marco Polo» (Questioni di lingua, e di stile)

(Fabio Romanini)

 

E sebbene il testo del Marco Polo datoci dal Ramusio sia suscettibile ancora di miglioramento […] nondimeno egli è preferibile sempre a qualunque altro

(Cicogna 1827, p. 317).

 

Indice – Delimitazione del campo di indagine. Lingua e stile dell’avantesto dei «Viaggi».Note correttorie sui «Viaggi di Messer Marco Polo».

Delimitazione del campo di indagine.

L’autorialità dei resoconti raccolti nelle Navigationi et viaggi, e dei testi introduttivi a ciascuna relazione, è stata spesso fraintesa, nella storia della fortuna del testo. Ne è conseguito un giudizio di valore negativo sul ruolo di revisore svolto da Ramusio: ma – a partire dalla importantissima edizione di Marica Milanesi (1978-1988) sono stati progressivamente puntualizzati alcuni aspetti fondamentali, tra i quali la cronologia dell’opera e il diverso ruolo assunto dal curatore; la provenienza e la storia della tradizione dei testi antologizzati; la natura delle introduzioni (di mano ramusiana) ai testi. Il rinnovato interesse per la letteratura di viaggio, e dunque, di riflesso, per gli autori pubblicati dal segretario veneziano, ha consentito di riordinare, nel loro sviluppo storico, singole tradizioni testuali, di cui la pubblicazione nelle Navigationi è stata solo una tappa (anche se, in alcuni casi, la più importante): Amerigo Vespucci (Formisano 1985), Antonio Pigafetta (Canova 1999), Niccolò de’ Conti (Guéret-Laferté 2004), Giovanni da Empoli (Romanini 2004), Lodovico de Varthema (Martino 2011), Odorico da Pordenone (Andreose 2012), Giovanni da Verrazzano (Romanini 2012), Giovanni Leone Africano (Amadori 2014) e Andrea Corsali (Romanini, Simion in prep.), per restare al solo panorama italiano.

In Romanini (2007) – il mio primo e più ampio studio dedicato alle correzioni ramusiane – ho sfruttato un campione omogeneo per fase preparatoria (testi tratti dal I volume, 1550, e tutti di area italiana, con un caso di retroversione dal francese in italiano), trascurando i volumi II e III, sui quali poi mi sono ripromesso di lavorare in un momento successivo anche contrastivamente. In Romanini (2012) ho studiato la tradizione del testo di Giovanni da Verrazzano, individuando una coerenza molto salda tra le procedure correttorie utilizzate da Ramusio per l’edizione di quella relazione (nel vol. III, 1556) e quelle da lui seguite nel I volume.

Con il Milione si affronta un livello ulteriore, e più complesso, dello studio delle procedure editoriali delle Navigationi, e per ragioni molteplici. Il testo è contenuto nel II volume, che fu pubblicato postumo nel 1559 (così il frontespizio, ma anche la prefazione di Tommaso Giunti, datata 9 marzo; tuttavia il colofone, evidentemente relativo ai materiali del testo, riporta la data 1558 e si riferisce molto vagamente ai materiali dell’avantesto come a «la Prefatione e l’Indice», senza indicarne la composizione dei fascicoli) a causa dell’incendio della tipografia giuntina di San Giuliano (4 novembre ’57), che causò la perdita di materiali presumibilmente già pronti per la stampa o stampati (tanto si ipotizza per esempio per i Commentarii di Caterino Zeno, che Ramusio scrive di voler pubblicare in questo volume delle Navigationi, ma che uscirono nel ’58 per Marcolini; e così per il mai realizzato IV volume, dedicato alle esplorazioni dell’America meridionale). Ramusio, che era morto il 10 luglio del ’57, fece in tempo a scrivere le introduzioni ai primi tre testi del volume, mentre tutti gli altri non sono corredati da un discorso introduttivo. Nelle more della pubblicazione, l’editore potrebbe avere affidato a un altro correttore il compito di seguire il processo di stampa in tipografia, o forse si potrà chiamare in causa, fin dal 1553 (anno in cui Ramusio fu nominato segretario del Consiglio dei Dieci, e presumibilmente poté dedicare sempre meno tempo al progetto), l’opera del figlio Paolo: ma forse possediamo ancora conoscenze troppo grossolane sulla “lingua” dei tipografi veneziani di metà Cinquecento per poter distinguere ciò che è ramusiano (di Giovanni Battista o di Paolo, e distinguendo fra i due) da ciò che non lo è basandoci semplicemente sui dati deducibili dall’edizione a stampa (una sommaria ricognizione dei problemi è in Milanesi 1978-1988, IV, pp. 3-4). In secondo luogo, il testo poliano è, diversamente dalla maggioranza dei testi antologizzati, una relazione di viaggio prodotta in tempi non vicini all’impresa delle Navigationi e inoltre opera di grande successo, testimoniata da più esemplari. Come ha già scritto Barbieri (par. 1 di questa Introduzione), l’importanza di Marco Polo per il pubblico veneziano indusse Ramusio (che dichiara di provare «affettione della patria» e di considerare maggiore la difficoltà del viaggio poliano rispetto a quello di Colombo) al lavoro filologico di cui s’è parlato. Tale procedura non sembra abituale all’interno del grande progetto, e per molti testi non sarebbe stata necessaria, per via delle ridotte dimensioni della loro tradizione (ma il II volume, uscito dopo il III, contiene altri viaggi di veneziani e potrebbe avere indotto Ramusio a una più accurata opera filologica). La valutazione dei risultati del lavoro editoriale ramusiano, qui ricostruiti offrirà anzi la possibilità di considerare complessivamente l’estensione dell’opera di collazione del curatore. All’inizio di questo percorso di analisi scrivevo (Romanini 2011, p. 13) che non sarebbe stato possibile analizzare la sola vulgata ramusiana prescindendo dal resto della tradizione. Ma ora mi propongo appunto di tentare di seguire questo percorso di indagine. Nella mia (breve) valutazione linguistica comprenderò anche l’introduzione ramusiana al testo del Milione, marcatamente posto in apertura di volume, come ideale archetipo dei viaggi verso l’Asia. Mi servo per i controlli dell’esemplare a stampa conservato alla Biblioteca Capitolare di Padova con segnatura 500. C5. 4.

L’avantesto è organizzato in sei fascicoli, riassumibili nella formula +1, 14, 23, 32, 43, 52. La cartulazione in cifre arabe in basso a destra sarà poi sostituita, dal primo testo in avanti, con quella consueta in lettere alfabetiche maiuscole (A-S4, T-V3, come recita anche il registro nel colofone): ciò significa che l’avantesto è stato impaginato separatamente dal corpo del volume, e possiede dunque una propria organizzazione fascicolare, modulata sui singoli testi. Il fascicolo + contiene il frontespizio e un singolo foglio con la prefazione di Giunti; nel fascicolo 1, quaderno, si trovano i “nomi degli autori” e la Prefatione ramusiana; nel 2, terno, e nel 3, duerno, Espositione e Dichiaratione (senza separazione), seguite da una tabella di longitudini e latitudini; nel 4, terno, e nel 5, duerno, l’indice del volume. In dettaglio: dopo la prefazione di Tommaso Giunti “Alli lettori”, che svela il nome del curatore delle Navigationi, rimasto fino a quel momento non dichiarato, il secondo volume si apre con un testo di Ramusio, nuovamente chiamato Prefatione (ma Prefacione nei titoli correnti) e riferito al «Libro» di Marco Polo, dedicato a Girolamo Fracastoro, che sarebbe morto all’inizio di agosto del 1553, appena prima che Ramusio completasse questa introduzione (datata 7 luglio; mentre «20 giugno 1553» è la data della dedica, sempre a Fracastoro, del terzo volume, uscito nel ’56), che si estende da f. 1 IIr a f. 1 VIIIv (o cf. 2r-8v se si segue la seconda cartulazione, in sole cifre arabe, in alto a destra). A questo segue l’Espositione di Ramusio «sopra queste parole di Messer Marco Polo», vd. 2 Ir- 2 Vr (= cf. 9r-13v); a f. 2 Vr inizia la Dichiaratione di alcuni luoghi ne libri di M. Marco Polo. Con l’Historia del Rheubarbaro, che si conclude a f. 3 IIIv (= vd. 13v-17v). Segue poi una tavola di latitudini e longitudini tratte da Abulfeda, alla f. 3 IVr (18r). Il verso è bianco. La Dichiaratione è un testo molto “gustoso”, perché Ramusio vi riporta il racconto di un mercante persiano, Chaggi Memet, resogli da un interprete, Michele Mambrè, durante un momento conviviale con l’editore Tommaso Giunti appositamente organizzato in una locanda di Murano («per goderlo con nostro maggiore contento»), approfittando di una pausa dagli impegni istituzionali («dai servigi della Republica», scrive Ramusio). Da qui inizia l’indice analitico del II volume, strumento di straordinaria modernità (fascf. 4-5); seguono i Viaggi, preceduti da due proemi (uno fatto «per un Genovese», cioè da Rustichello, conosciuto durante la cattività genovese — ma l’intermediazione francese e l’identità del co-autore non erano note a Ramusio —, l’altro di frate Pipino), contenuti alla f. A Ir-v (= f. 1r-v: la cartulazione in alto a destra, infatti, ricomincia da 1 dopo la conclusione dell’avantesto). Queste precisazioni consentono dunque di identificare i materiali che furono composti indipendentemente dal corpo del libro, in fascicoli dedicati che si aggiunsero di certo in un momento prossimo alla stampa del volume (vd. Barbieri 2011, pp. XII e XV).

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Lingua e stile dell’avantesto dei «Viaggi».

Si offre qui uno spoglio linguistico molto selettivo dei testi Prefatione, Espositione e Dichiaratione, e dei due proemi, Proemio primo e Proemio secondo, di cui Ramusio raffina la lingua; le mie note tendono a evidenziare la conformità o la distanza della varietà linguistica ramusiana rispetto all’uso e alle indicazioni di Bembo. Basta leggere fino alla settima riga della Prefatione per trovare un volsero che richiama l’insegnamento di Bembo delle Prose della volgar lingua, prezioso termine di paragone per valutare la toscanizzazione della lingua ramusiana (più avanti trovo anche scopersero): tuttavia, la coincidenza del precetto bembesco con l’uso argenteo impone di verificare che l’avanzamento della competenza linguistica del toscano, in Ramusio, non si sia piuttosto arrestato a un momento precedente. La posizione marcata della Prefatione, del resto, non può che mostrare una cura accentuata per la forma: e se ne apprezza la sintassi a ampie volute, con posposizione del verbo in fine di frase «la qual cosa al tempo di Strabone, et Plinio, quando i Romani eran Signori del mondo, non si sapeva»; ecc.

Una concessione alla regionalità settentrionale si intravvede, a mio avviso, nella concentrazione di forme apocopate più elevata rispetto alla prosa dei toscani nativi: funzionale qui certo alla discorsività del testo, ma forse più spontanea che studiata (più importanti sono quelle prima di pausa: Armenia Maggior, et Minor). E qualche tratto settentrionale emerge soprattutto nella resa grafo-fonetica del toscano: la grafia {cio} “zio” per riferirsi a Matteo Polo (usata solo in un paio di casi, in alternativa a zio; nel secondo proemio trovo invece barba), ne è un esempio, ribadito altrove da dricciare e da Brandicio “Brindisi”, peraltro a fronte di un ottimo controllo delle assibilazioni e delle affricazioni settentrionali (fanno eccezione lo Dose, brazzo del mare Oceano, specchi di azzale, quasi stranianti per via del loro isolamento e spiegabili forse con la loro alta frequenza nella lingua quotidiana di Ramusio).

Per il vocalismo tonico, registro radissime iperdittongazioni (scuoprono); il dittongo si conserva anche laddove l’evoluzione del toscano aveva restaurato il monottongo, come nei casi di occlusiva più vibrante (ritruovo, prieghi); l’anafonesi è generalmente rispettata, se si eccettua un’occorrenza per forma di longa e longe “lunghe” (a R II 18 e a R II 39 trovo invece lunghe) e, a brevissima distanza tra loro, longamente e longhezza (noterò di passaggio che nelle edizioni successive, in mancanza del controllo ramusiano in tipografia, la cura per questo aspetto del fiorentino è minore: sto preparando uno studio su questo argomento); c’è infine ponto ‘punto’ nel secondo proemio. In posizione atona, compare ar nei futuri e nei condizionali (citaranno ecc.) e raramente altrove (Ungaria, libraria, stamparia; e quasi sempre maraviglia e maravigliose tranne in un’occorrenza). Ho appuntato qualche caso di mancata chiusura in atonia: spaventatose, se retirò, arteglieria, cui fanno da contraltare alcune chiusure toscaneggianti (o piuttosto latineggianti), come in vinticinque, nimici, o sustituto, summità, cruciata “crociata”. Il consonantismo si contraddistingue per alcuni scempiamenti (caminando, facende, sepelire, bichieri, verghete) e sonorizzazioni o dilegui, per la verità piuttosto rari (soffitadi “soffittati, dotati di soffitta”, gomedo, continoi, tagliapiere) e all’opposto per ipercorrettismi non sistematici (amorevollezza, robba, raggione, marccio e onccia) e per la mancanza dei raddoppiamenti nei composti (sopradetto, intravenne, sudetta). In controtendenza sul toscano sono solaro, solari e armaro “armadio” per il trattamento di -ariu (non trovo comunque altri esempi): è da notare che solaro è anche il nome della vettura dei signori portata da quattro schiavi, una portantina con ricchissimo baldacchino. Nel secondo proemio, quello pipiniano, trovo anche il vb. para “paia” e parino “paiano”. Buoni esempi di prostesi toscana sono l’istesso anno, per ischerno; compare anche un raddoppiamento fonosintattico (dallei).

Per la morfologia, è notevole l’articolo maschile preposto al cognome (il Colombo). Piuttosto inconsueto, e forse residuo argenteo passato inosservato, è gli christiani, nella prima pagina dell’Espositione. Fanno eccezione perché residuali anche l’articolo singolare el (el Doge, el lettore) e il plurale e cavalli; un po’ più frequenti le forme lo/li: li suoi, li successori. Non è accolta la prescrizione bembesca riguardo all’uso di forme con terminazione vocalica (relativamente a articoli e aggettivi dimostrativi) davanti a nomi inizianti per sibilante più occlusiva: abbiamo così forme come quel spacio, del stretto, il smontare (per il plurale: i specchi) che un paio di decenni prima Ariosto aveva accuratamente eliminato dall’Orlando Furioso. Trovo anche alcuni plurali in -e di nomi femminili di terza declinazione: veste lunghe (ma in concorrenza con vesti), berrette verde (ma anche verdi, poco lontano), le regione. Un relitto di neutro plurale è carra. La prefazione contiene un esempio di eglino come pronome di terza plurale, non condannato dalle Prose ma considerato un tratto tendenzialmente argenteo e dell’oralità e dunque non raccomandato tra i modelli (ma usato dal Bembo 8 volte nell’ed. 1525: si tratta di un caso che rientra nella categoria di grammatica silenziosa codificata da Patota 1997); altri casi non canonici sono invece le presenze di gli e di le (femm. plur.) come soggetto: «quando gli è verde è tanto amaro»; «le cose […] che gli haveria potuto scrivere, se gl’havesse creduto di poter ritornar»; «sopra i detti monti, dove le nascono». Resiste l’uso di -gli enclitico dove oggi si usa -li («fece raccorre et ordinare tutti li Statuti di Venetia riducendogli in un volume»), e inoltre «gli bucano et gli appiccano». Non stupisce l’uso delle forme fusse, fussero (trovo un unico fosse e un fossero all’interno del campione), tratto caratterizzante di questa fase di evoluzione nell’uso della lingua letteraria e rintracciato anche in altri scritti ramusiani a stampa, assieme a altra morfologia verbale argentea (di cui elenco senza sistematicità alcune tra le numerose forme rappresentative: pareno pres., potevono, havevono imperf., messono, hebbono perf., possi (3a sing.), aspettassino, servino, voglino cong. pres., i condizionali haverei, haveria, apportaria, haveremmo, fariano, darebbono, ecc.). Qualche oscillazione si ha nell’uso dell’imperfetto: haveva concede qualche presenza a havea, il cui uso dovrebbe essere destinato al verso. Molto raffinato mi sembra l’uso dell’aureo riempiè (qui segnalato con accento grave) in luogo dell’argenteo — e originariamente non fiorentino — riempì. La persistenza di forme sigmatiche rizotoniche è rappresentata da cesse “cedette” e (per il participio passato) cessa “ceduta”. Il polimorfismo si manifesta anche al futuro, dove haverà convive con harà. Annoto la forma incominciassi (seguita a poche righe di intervallo da un havessi) per la 3a p. sg., proprio in apertura della Dichiaratione, con una desinenza -i (argentea) che rimane ancora oggi in alcune aree periferiche del dominio veneziano. Un uso dell’ausiliare avere col riflessivo è in «se a lui s’havessero voluto arrendere». Tra i numerali segnalo duoi per il maschile plurale e il toscanissimo dugento. Per gli invariabili, accanto a oltre compare anche oltra, cui si aggiunge fuora. Per le preposizioni articolate, segnalo nel secondo proemio un’eccezione al bembismo dilagante: in la volgare.

Nel lessico non sono poche le forme latineggianti (non mi riferisco qui alle numerosissime resistenze grafiche), tra le quali fabulose, immediate avv., fabricata, conietture, effigie “volto” — parola questa molto “boccacciana” —, salute “salvezza”, referto “riferito”, oblivione ecc.; un tocco di latino offre anche la sintassi delle dichiarative e oggettive: dice, essere differente; visto, non potere resistere, con qualche peculiarità nell’uso dell’interfisso incoativo (advertisca, invechiscono). Richiama l’uso trecentesco anche l’enclisi pronominale: «fu fatto Papa, et chiamossi Gregorio decimo»; «et erane lor capitano generale»; «elessero duoi delli suoi Baroni, et mandarongli a Costantinopoli»; e forme assimilate come auttore, auttorità (ma autor se tronco), essercito. In queste pagine Ramusio usa sempre il termine armata per riferirsi alle imbarcazioni; è tipica invece del suo repertorio editoriale la correzione di flotta in armata nei testi di area iberica, o scritti da autori italiani che avevano navigato al servizio di spagnoli e portoghesi. Interessante, perché riflette una concezione razionalistica della lingua, è la grafia tan’tosto, con separazione dei componenti (aggiungo i meno rari numerali trent’otto, cinquant’otto).

Tra le parole di rara attestazione segnalo almeno palanderie, piccole navi turche simili alle feluche e adatte al trasporto di merci e persone: nell’Esposizione questo termine è impiegato da Ramusio come glossa di uscieri, che è probabilmente italianizzazione del termine veneziano usser, un’imbarcazione da carico (nel testo adibita al trasporto di cavalli). Ramusio informa inoltre i lettori che palanderie ha sostituito uscieri nella lingua d’uso. Palanderie potrebbe essere un turchismo, forse mediato dal greco, mentre usser verrà dal fr. ant. huisser, attraverso il lat. med. navis usseria o huisseria. Interessanti per il lessico marinaresco sono anche le attestazioni di mangani e periere (con riduzione del dittongo di piera ‘pietra’), macchinari navali adibiti rispettivamente all’avvolgimento delle vele e al lancio di detriti contro gli assediati (quest’ultima macchina era un’antenata del cannone). Raro è anche affronto n., deverbale a suffisso zero.

Merita attenzione la cura retorica del testo: la prosa ramusiana, non diversamente dall’uso dei puristi, si serve di legature sintattiche, che danno equilibrio al periodo e ne collegano le parti. Diverse strutture sono concepite come vere e proprie dittologie («perfetto, et pieno di sapientia»; «savio, et prudente»; «maraviglioso, et stupendo»; «errori, et scorrezioni» ecc.), ma alcuni periodi mostrano con evidenza la loro struttura a aggiunzione progressiva: «et data l’acqua alle mani, et fatti seder gli altri, spogliatesi le dette vesti, se ne missero altre di damasco cremosino, et le prime di suo ordine furono tagliate in pezzi, et divise fra li servitori», con il periodo “aperto” a destra all’accumulo narrativo. Nel lessico, sono ormai piuttosto rare le forme in -evole tipiche dell’imitazione boccacciana (soprattutto letteraria) di primo ’500, mentre affiorano, pur centellinati, i superlativi assoluti (honoratissima, asprissimo, fertilissima ecc.). Sulla imitatio dello stile poliano nel resoconto di Chaggi Memet si è soffermato Mascherpa (2011, pp. 62-63).

In chiusura di spoglio evidenzio, come informazioni pertinenti alle scelte linguistiche di Ramusio e relative comunque alla sua concezione della lingua, alcune valutazioni su testi di viaggio che egli lesse e riutilizzò parzialmente nei testi di raccordo delle Navigationi: molto interessante, nelle pagine della Prefatione, è il giudizio di valore espresso dal diplomatico veneziano sul compendio arabo di Ismail Abulfeda: la narrazione segue un «ordine veramente bellissimo, et risoluto, ch’è proprio et peculiare degli scrittori Arabi»: l’auctoritas di Avicenna è allegata di seguito a conforto di questa valutazione. Alcune note dell’antologista sui materiali disponibili sono molto eloquenti riguardo al suo comportamento editoriale: Ramusio si prefigge di fornire una versione testuale «di gran lunga molto più fidele di quello, che fin hora si è letto» (a tal proposito Mascherpa 2011, pp. 71-72 ricorda una frase di Benedetto, con cui mostra di concordare, secondo il quale Ramusio non si sarebbe prefisso di dare il vero libro di Polo nella sua integrità e purezza, ma un’edizione superiore: l’aggettivo fidele, però, suggerisce piuttosto la ricerca della volontà autoriale attraverso le testimonianze). All’interno della Prefatione, Ramusio suggerisce alcuni esempi di collegamenti intertestuali resi possibili dalle Navigationi, che risultano semplici per i lettori più attenti e zelanti: dilungandosi sulle informazioni riguardo alle province, egli sceglie alcuni dati forniti da Marco per garantirli con la testimonianza di Aitone da Corico (Hayton Armeno), che è stampata di seguito al Milione. Ma i riferimenti possono anche servire a chiarire la toponomastica, o a dichiarare l’identità di luoghi chiamati con nomi differenti da diversi autori. Oppure — e questa attenzione è ovviamente fondante per l’opus ramusiano — rinvia alla cartografia: qui a João de Barros, delle cui Décadas da Ásia (1552) le Navigationi, a partire dalla seconda edizione del 1554, contengono la traduzione di alcuni capitoli. Questo dato costituisce peraltro il terminus post quem di questa prefazione, datata come detto 7 luglio 1553. Nella Dichiaratione, invece, la localizzazione procede per auctoritates più classiche, come Strabone, Plinio e Tolomeo; ma poi il racconto del rabarbaro fatto da Chaggi Memet si conclude con un’osservazione decisiva: e cioè che i nomi evocati dal mercante persiano corrispondono a quelli del Milione: «riconobbi con mio molto contento li medesimi nomi di molte città et alcune provincie essere scritti nel primo libro del viaggio de M. Marco Polo». Questa affermazione consente di giustificare meglio la presenza del Milione entro le Navigationi: non solo testo prezioso per le esplorazioni verso est, malgrado gli elementi di fantasia ivi contenuti, inserito con indulgenza per via dell’origine veneziana di Marco: bensì narrazione contenente, ancora a metà Cinquecento, molti elementi topografici utili al viaggio dei mercanti e attendibili informazioni sui commerci. La Dichiaratione si chiude infatti con una sorta di espansione del Milione, e racconta di una provincia non toccata da Polo, utile a completare il quadro della regione. L’ulteriore aggiunta — con la testimonianza di Chaggi Memet su questi luoghi e con un aneddoto ramusiano su quanto gli fu raccontato da Paolo Orlandino, cosmografo e priore di San Michele di Murano distingue poi gli elementi originali di un mappamondo conservato presso il monastero, desunti da un identico oggetto portato dai Polo, da ciò che fu aggiunto «per ignorantia», cioè la «descrittione di huomini et animali di piu sorti, et altre sciocchezze [­…] tante cose piu moderne et alquanto ridiculose», che causarono una perdita di credibilità del testo poliano «appresso gli huomini di giudicio». L’ampiezza dell’avantesto si motiva allora per più fattori: oltre all’aggiornamento linguistico, che qui si è illustrato, di stadio avanzato ma ancora non precisamente aderente ai precetti del sodale Bembo (benché Ramusio fosse stato lettore precoce delle Prose e probabilmente membro dell’Accademia Aldina: così Cicogna 1827, pp. 318 e 325 rispettivamente), pure per ragioni filologiche e culturali, al fine di giustificare la credibilità geografica, e di conseguenza l’utilità pratica, del Milione. Ramusio tenta anche di rendere ragione delle distanze riportate da Marco, presumendo che si tratti di stime grossolane riferitegli dai marinai e motivandone l’approssimazione con l’uso di strumenti di misurazione più arretrati (niente bussolo, né calamita, e dunque necessità di misurare «grossamente guardando»). Sull’attendibilità di altri dati, conclude Ramusio, si potrà giudicare solo dopo che i Portoghesi avranno completato l’esplorazione dei mari dell’Estremo Oriente: e tanto basta a convincere il lettore — se mai ce ne fosse stato bisogno — a procedere nella lettura dei Viaggi di Messer Marco Polo.

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Note correttorie sui «Viaggi di Messer Marco Polo».

    

Benedetto (1928), pp CLVIII-CC sottolineò l’importanza della testimonianza ramusiana per la storia della tradizione del Milione: proprio lo studio della versione contenuta nelle Navigationi facilitò la ricostruzione del testo. E Barbieri (2011, p. VIII), nell’introduzione ai lavori di un recente seminario veneziano, suggerisce opportunamente la definizione di “traduzione critica” per il lavoro di Ramusio e per il suo ruolo di attivo riscrittore di testimonianze fuse assieme. Gli imponenti lavori filologici connessi alla princeps delle Navigationi mettono definitivamente in luce la portata dei diversi interventi sul testo poliano, la cui sostanza è di molto superiore alla “curatela media” dei testi antologizzati (qualche esempio di resoconto di tradizione testuale assai meno folta è in Romanini 2007). La mia proposta di breve riesame del testo prende le mosse dai preziosi inquadramenti di Mascherpa (2011), Andreose, Barbieri (2011) e Burgio, Fornasiero (2011), che hanno studiato in dettaglio il comportamento dell’editore Ramusio di fronte al Milione, allegando esempi e soprattuto confronti tra il testo delle Navigationi e le sue fonti, con diversi gradi di fedeltà. Mascherpa (2011, p. 77) concludeva il proprio studio notando, rispetto a un quadro di rispetto della norma bembesca applicata ancora con approssimazione, alcune derive verso il latino e il veneziano. L’apporto della tradizione latina sul testo delle Navigationi, considerato primario da Benedetto ma ridimensionato da questi ultimi studi, potrebbe però essere riconoscibile dal precipitato lessicale latineggiante, inviso ai puristi (e su cui Ramusio di norma agisce, come avevo notato per altri testi in Romanini 2007, pp. 137-141); e i venezianismi potrebbero, certo, costituire un arguto ammiccamento alla celebrazione della figura di Marco. Le informazioni raccolte nel paragrafo precedente, però, suggeriscono piuttosto una curatela diretta al recupero dell’attendibilità testuale del Milione e mi orientano perciò verso una spiegazione più meccanica e meno ideale di queste deviazioni, vale a dire sugli eventi di tipografia.

Sull’analisi di raffronti testuali hanno lavorato altri studiosi di questo gruppo di ricerca, scandagliando il comportamento di Ramusio correttore e rintracciandovi molte affinità con la prassi usuale, nonché eccezioni, anche parziali, o tendenze che non erano apparse per tradizioni testuali meno complesse (rimando per questo ai singoli passi del testo poliano, e ai commenti puntuali). Si offre qui invece un saggio di lettura di alcuni brani del Milione nella versione ramusiana: questo spoglio è arricchibile a piacere del lettore con i dati forniti dal questa edizione e può essere confrontato con le lezioni di tutte i testimoni oggi disponibili. Oggetto di osservazione è la superficie testuale, alla ricerca di increspature che possano suggerire modalità di “cucitura” delle fonti ricorrenti o insolite rispetto al testo; per lo scavo profondo, sarà opportuno riferirsi all’edizione stessa.

L’amplissimo avantesto non è compensato da un’altrettanto estesa introduzione al viaggio: il lettore è portato direttamente in medias res, e accolto da un dettato toscanissimo, eppure segnato da un dose e da due perfetti, deliberorno e navigorono (nell’ed. Milanesi si legge navigorno, ma la forma sincopata risale all’ed. del 1583, da cui la curatrice trae il testo), che confermano il quadro linguistico tracciato in precedenza. La morfologia verbale ramusiana rappresenta uno dei settori più refrattari alla normalizzazione linguistica, e presenta un polimorfismo il cui valore pare quasi ritmico (come se la sincope fosse una soluzione stilistica, per preservare una durata sillabica precisa: in questo incipit i due verbi sono pentasillabici). Nelle aree testuali di trapasso, in cui la narrazione si fa più veloce, prevalgono le forme verbali di modo implicito; eccone alcuni esempi, proprio dalle prime righe del Milione ramusiano (R I 1 1):

 

«Dovete adunque sapere che nel tempo di Balduino, imperatore di Constantinopoli, dove allhora soleva stare un podestà di Venetia per nome di messer lo dose, correndo gli anni del N.S. MCCL, messer Nicolò Polo, padre di messer Marco, et messer Maffio Polo, fratello del detto messer Nicolò, nobili, honorati et savi di Venetia, trovandosi in Constantinopoli con molte loro grandi mercantie, hebbero insieme molti ragionamenti […]»

 

Ho posto in corsivo la struttura di frase principale e subordinata di primo grado, che contiene al proprio interno, per accumulo giustappositivo, tre frasi, di cui due introdotte da gerundio. Poco oltre (R I 1 2):

 

«Et comprate molte bellissime gioie et di gran pretio, partendosi di Constantinopoli navigorono per il detto mar Maggiore ad un porto detto Soldadia […]»

 

Anche in questo caso la struttura subordinativa è affidata a forme implicite, participio e gerundio. Ancora (R I 1 3):

 

«Costui [sf. Barcha, Signor dei Tartari occidentali] della venuta di questi fratelli hebbe grandissimo piacere et feceli grande honore; quali havendo mostrate le gioie portate seco, vedendo che gli piacevano, gliele donarono liberamente».

 

L’incastonatura delle frasi implicite nella struttura principale, consentita dalla costanza tematica, permette la condensazione delle informazioni e l’accostamento delle frasi nel periodo. Noto di passaggio che feceli sarà presto cambiato in fece loro e anche le gli sarà semplificato in gli, con soppressione del le soggetto, già sottratto da Bembo al novero delle forme possibili. Altri incipit simili in R I 1 5 e sgg. (quasi tutti al gerundio, eccetto uno participiale):

 

«Et essendo stati un anno nel paese del detto Signore, volendo ritornare a Venetia […]

[…] per la qual cagione, non essendo sicure le vie […]

[…] et havendo dimandato, come essi potessino ritornare a Constantinopoli […]

[…] et partendosi da quel luogo, et andando piu oltre […]

Passato il diserto […]

[…] il quale essendo giunto in Bocara, et trovando i sopradetti dui fratelli, i quali già pienamente havevano imparato il linguaggio Tartaresco […]

[…] et havendo con loro per molti giorni parlato, et havuto compagnia, vede(n)do i gratiosi, et buoni costumi suoi […]

[…] I quali vedendo, che non poteano ritornare à casa, senza grandissimo pericolo, raccomandandosi a Dio […]».

 

In una manciata di casi, invece, le frasi al gerundio seguono la principale. Merita segnalazione almeno un’altra struttura (R I 1 5-6):

 

«[…] subitamente nacque guerra tra il preditto Barcha et un altro nominato Alaú, signore d’i Tartari orientali. Gli esserciti d’i quali havendo combattuto insieme, Alaú hebbe la vittoria et l’essercito di Barcha ne hebbe grandissima sconfitta»

 

in cui l’ambiguità della struttura gerundiale, che cela una dipendente temporale, consente comunque la coerenza tematica. Ma il prosieguo:

 

«[…] per la qual cagione, non essendo sicure le vie, non poteron ritornare a casa per la strada ch’erano venuti»

 

riprende il tema portante del discorso, cioè i tre Polo, quasi come se la digressione precedente fosse stata parentetica. La concentrazione di queste forme sintattiche latineggianti pare comunque rivelatrice di una filigrana testuale latina, sia essa primaria o, come più spesso, secondaria, attinta invece attraverso la mediazione di un antigrafo volgare (veneto).

Altra notazione interessante concerne l’uso dei superlativi: nella sola prima carta del testo trovo: bellissime gioie, grandissimo piacere, grandissimi et ricchissimi doni e grandissimo pericolo. Il repertorio non sembra dunque molto vario. Questo aspetto mi sembra invece un punto esposto a riscrittura, e cioè all’imposizione sul testo della sovrastruttura puristica, e in particolare di alcuni stilemi, come appunto l’uso del superlativo. Questo tipo di presenza si accresce nelle parti più descrittive: per esempio, nella descrizione dell’Armenia maggiore (R I 4 1 sgg.) si rintracciano bellissimi bochassini, ricchissima minera, grandissimo et altissimo monte. Altra caratteristica stilistica, comune ma accentuata dall’ambizione letteraria, è l’uso di dittologie: alle due già elencate sopra per i superlativi il solo paragrafo relativo all’Armenia maggiore permette di aggiungere (con elenco allargato, in cui i due termini possono essere anche complementari e non alternativi) li piu belli et migliori bagni; molte città, et castelli; il gran freddo et neve; pascoli, et herbe; largo et lungo; grasso et abondante de herbe; per la rogna, et p(er) molte infirmità.

Mi sposto al II libro, e scelgo un paragrafo rappresentativo, e sufficientemente lungo, per esprimere alcune altre considerazioni. Il capitolo R II 6 (f. C IIIIv, o 22v, secondo le due numerazioni) si sofferma a descrivere il palazzo del Gran Khan, e si trova ormai abbastanza lontano dall’inizio del testo, ovviamente più sorvegliato. Sorprende qui, infatti, la concessione all’affricazione settentrionale: accanto al poco rappresentativo corazza, settentrionalismo acclimatato in fiorentino fin dal ’200 (Castellani 2000, pp. 141-143) trovo fazzata, fazzate, due volte fazza (“facciata”), frezze. Suona veneziano anche l’aggettivo salezzate “selciate”, riferito a strade. In controtendenza pure cuoro, che peraltro è una soluzione anche veneta; alla serie andrà aggiunto solaro. Circuisse “circuisce” (due occorrenze) e referisse “referisce” mostrano la perdita dell’elemento palatale nella sibilante. Alcuni elementi consolidano l’impressione complessiva dell’impianto linguistico ramusiano: per esempio, la selezione dell’articolo il davanti a s seguita da occlusiva (il spatio), mentre altri mostrano soluzioni meno regolari (trova monottongato contro truova). Compaiono in questo passo numerosi casi di troncamento degli infiniti verbali davanti a vocale, fenomeno assai raro all’inizio del testo (ma testimoniato nell’ed. Milanesi, basata sull’ed. 1583).

Per la morfologia, segnalo dieci passa (per misurare l’altezza del palazzo) e più oltre due passa (con numerale femminile) e cento passa (per indicare l’altezza di un monte), e molte sorte (anche sorti, verso la fine del passo), e ancora l’uso del numerale duoi per indicare un maschile plurale. Abbiamo invece due casi di fosse (contro il quasi esclusivo fusse, che in questo passo non compare). Al condizionale c’è potria.

Questo per i settentrionalismi; sull’altro versante di spoglio, alcune espressioni sospettabili di essere un calco dal latino sono per esempio acqua di pioggia (da aqua pluvia), e acquare “abbeverare”, che in antico trovo solo nella Bibbia (dunque in un altro volgarizzamento). L’oscillazione, nel breve giro di poche righe, tra copritura e coperture potrebbe invece essere un esempio, non frequente, di passività di fronte all’antigrafo, soprattutto se si considera che il testo toscano del Milione presenta continue oscillazioni tra le due forme. Innovazione lessicale sembra essere poggiolo “balcone”, che è un “asolanismo” rilevato (lo commenta Trovato 1994, pp. 269-270, supponendo che la forma poggetto del testo bembiano sia un adattamento del veneziano pozolo). Nel complesso, questo secondo passo suggerisce un atteggiamento assai diverso rispetto all’incipit: abbondano i settentrionalismi e l’atteggiamento editoriale pare più passivo, molto poco “ramusiano”, con affioramenti di abitudini editoriali non troppo esperte di toscanizzazione.

Trascelgo un ultimo brano, questa volta dal III libro, per tentare di cogliere eventuali fluttuazioni nella curatela: propongo alcuni elementi linguistici nei capp. 36-38 (ff. G IIr-v, o 58r-v), dedicati a Zenzibar, isole indiane e Abascia. Rispetto a quanto visto sopra, noto la mancata dittongazione in trova, e invece l’applicazione dell’anafonesi, per analogia, in lunghezza. All’opposto, elementi antitoscani sono la lenizione dell’occlusiva velare in fuogo, lo scempiamento di abondanza, l’ipercorrettismo di gotta — peraltro subito dopo una doppia occorrenza di gota (il che apre una questione fin qui non affrontata riguardo all’atteggiamento linguistico di Ramusio, cioè la sua indubbia tolleranza verso il polimorfismo, al netto del comportamento dei compositori) — l’affricazione di lanze, il trattamento di -arius in marinari (in cui manca cioè l’estensione al plurale, analogica, dell’esito toscano). Non rara è la forma prostetica inimici. Pochi sono invece, in questa area di testo, i troncamenti, e soprattutto ricorrono per gli infiniti verbali: passar per tanti luoghi.

Passando ai rilievi morfologici, analogo è il trattamento riservato ai determinanti, siano articoli e preposizioni articolate, o dimostrativi: li capelli, li Christiani, ecc., dalli nostri, nelli loro confini, quelli mari; al singolare, per l’aggettivo bello, trovo un esito grafico (bel animale) non conforme all’uso attuale. Come sopra, incerto è l’uso della preposizione articolata nel caso di in la città. Segnalo, per i numerali, gli argentei duomila e duoi; per il pronome personale, l’uso di suoi anche per la terza persona plurale, almeno in li Re Sarraceni hanno i suoi reami. Per il verbo, accanto all’indicativo presente pareno, sono notevoli i perfetti convertitte e accadette, il congiuntivo di prima persona habbi scritto (argenteo), e poi l’imperfetto se la fosse (e non fusse; e dove la è usato come soggetto), e infine la lunga teoria di condizionali saria, potria, pareriano, fariano, che era stata già messa da parte dal Bembo dei primi Asolani. L’uso di havea deliberato tradisce ancora la confusione di formule “poetiche” con quelle “prosastiche”. il verbo temere regge l’infinito apreposizionale: non temono morire. Il participio accorciato per stà affiora in due casi in questo breve passo: li era stà fatto (li vale “gli”), ch’era stà fatto.

Trovo riconfermate, anche in questo segmento testuale, alcune tendenze lessicali su cui mi ero soffermato, e cioè la scarsa produttività del suffisso -evole (qui solo spaventevoli), e per contro una presenza marcata di superlativi assoluti, molto spesso su aggettivi dalla semantica molto generica, o ampia (e perciò più evocativi che realmente descrittivi): grossissime, grandissimi e un’attestazione con il rafforzativo “molto”: molto ricchissima, che appare tratto trasandato. È quasi una curiosità la presenza della voce verbale imbriaca “ubriaca”, con velare sorda per tentativo di toscanizzazione di una voce regionale. Con l’allargarsi progressivo della campionatura assume valore stilistico l’aggettivazione molto semplice usata da Ramusio per descrivere gli animali, costruita su opposizioni di aggettivi di uso comune e valore generico: grosso / piccolo, alto / basso, lungo / corto, qui con una variazione curiosa, un «assai giusto» riferito al «busto» della giraffa, il cui mantello è «a rodelle». Tipica poi delle descrizioni è l’evocazione degli animali esotici attraverso il confronto con le bestie conosciute: hanno montoni molto differenti dalli nostri; et così l’altre bestie sono dissimili dalle nostre (tali frasi possono essere usate come introduzioni della descrizione, o invece a conclusione delle brevi “schede”). Molto interessante è l’uso del verbo compassare (denominale da compasso “bussola”, e usato come transitivo) che vale ‘misurare con strumenti di navigazione’: «[…] come ho veduto per scrittura da quelli, che hanno compassato quelmare d’India » (R III 38 1). Merita una citazione pure la locuzione, o forse piuttosto la collocazione, huomini di guerra, che vale come variante di combattitori, sebbene i due elementi si trovino sufficientemente distanti nel passo. Subito prima, invece, compare il comune guerrieri. Con termine collettivo, lo stesso passo contiene anche gente da guerra. Altro elemento lessicale rilevante è disconfortato, con prefisso dis-, e seguito da negazione: «fu disconfortato […] di non farlo» (R III 39 9).

L’apparato sintattico funziona, come di consueto nelle descrizioni, per continui ampliamenti a destra, attraverso l’aggiunta di frasi coordinate contenenti nuove informazioni; oppure per costruzioni relative, anche con uso di nessi relativi. Sarà sufficiente un esempio (R III 39 12): «[…] andò a destruttione et ruina del soldano di Adem; qual, intesa la venuta […]» ecc. (con dipendente implicita, qui participiale, premessa alla principale). Le proposizioni implicite consentono, per la resa di causali, un notevole risparmio in termini di estensione frasale, al prezzo talvolta di una parziale oscurità semantica: «[…] gran copia [di ambracano] ne trovano sopra i lidi dell’isola, per esservi in quei mari assai balene» (R III 37 11). Queste abitudini sintattiche, che privilegiano le aggiunte e i rilanci, espongono l’autore al rischio di lasciare a testo constructiones ad sensum non razionalizzate. La terza campionatura offre almeno tre esempi: «Hanno delle giraffe, ch’è bel animale a vederlo» (R III 37 9); «[…] li christiani, per essere cognosciuti, li fanno tre segnali, cioè un in fronte et un per gota […]» (R III 39 3); (“ai cristiani, affinché siano riconoscibili, vengono fatti tre segni […]”. Qui l’infinitiva con per ha valore finale, mentre poche righe sopra ho dato esempio della stessa costruzione, con valore causale). Vale una segnalazione più ampia il seguente periodo, in cui si intrecciano costanza tematica e introduzioni rematiche (R III 39 10-11):

 

«[…] nel ritorno [un Episcopo] capitò in la città di Adem, dove il soldano di quella lo fece venire alla sua presenza, et qui con minaccie lo voleva constringere a farsi macomettano. Ma lui stando constante et ostinato di non volere lassare la fede christiana, il soldano lo fece circuncidere, in dispregio del re d’i Abisscini, et lo licentiò».

 

Si nota in particolare il valore causale della gerundiale, reperibile anche in contesti sintattici meno intricati: «[…] per il pericolo grande che vi era, dovendo passar per tanti luoghi et terre di Sarraceni» (R III 39 9). La dipendente implicita participiale ha invece, di preferenza, un valore temporale: «Ma, azzuffatosi insieme, il re d’i Abisscini fu vincitore» (R III 39 13). Non stupisce l’uso del che polivalente: «[…] barattano con ambracano, che gran copia ne trovano» (R III 37 11), ecc. Stilema molto frequente nelle narrazioni, anche per strategia testuale, è l’uso di incapsulatori cataforici, come in «Il venire di detti popoli alla fede christiana fu in questo modo, che havendo […]» (R III 39 6) ecc.: frase introduttiva — quasi un titolo — incapsulatore, che, costruzione gerundiale o participiale.

Si potrebbe dunque tracciare uno schizzo conclusivo della lingua ramusiana (più che un quadro generale, per il quale sarà necessario approfondire lo studio del campione, allargandolo a testimonianze manoscritte, soprattutto epistolari, esterne alle Navigationi), ma ancor più, rispetto a quanto scrivevo provvisoriamente nell’appendice a Romanini (2007), mi sembra rilevante il peso dell’intervento tipografico sui testi dell’antologia: almeno uno dei tre brani spogliati (il secondo) rivela infatti caratteristiche linguistiche non del tutto omogenee rispetto al livello medio di cura editoriale compiuta da Ramusio. Sappiamo poco riguardo alle figure operanti attorno alla tipografia giuntina negli anni ’50 del Cinquecento, e oltre: eppure la loro opera affiora, anche in questi spogli, allorché le spie linguistiche mostrano un’incostanza di trattamento della lingua, e mancate normalizzazioni (ben oltre alla persistenza del polimorfismo nelle pagine ramusiane). Uno sguardo, per il momento poco più che impressionistico, alle edizioni successive delle Navigationi, postume al grande ideatore del progetto, fa sospettare per esempio una progressiva accentuazione della mancata anafonesi: ed è probabile che non sia questo l’unico aspetto almeno oscillante, o in controtendenza più decisa, rispetto ai precetti bembeschi (non sarà secondario, ovviamente, il mutato valore dei correttori editoriali operanti presso gli eredi di Giunti). Ramusio non mostra di accogliere la lezione delle Prose con scrupolo per i particolari, e piuttosto si attesta sui livelli della toscanizzazione primocinquecentesca, sul Bembo dei primi Asolani (1505), mostrandosi particolarmente refrattario — scelgo un fenomeno forse più ragguardevole di altri — a normalizzare la morfologia verbale: questo campo sembra quello maggiormente resistente alla “imbalsamazione” della lingua (così Formisano, introducendo Canova 1999, e poi in Formisano 2006, p. 15) di cui le Navigationi sono un esempio macroscopico. Sarà dunque importante, nel prosieguo degli studi sulla lingua del segretario veneziano, iniziare a distinguere ciò che va imputato alla sua competenza linguistica e ciò che invece muta nel passaggio (fino all’ultima ed. del 1613) attraverso i torchi della tipografia giuntina.

[Per la rilettura di queste pagine, e diversi suggerimenti di lavoro, sono debitore a tutti gli studiosi che hanno firmato questo progetto, e inoltre a Anna Rinaldin, Paolo Trovato e Angelo Variano.]

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