(Angelo Cattaneo)
Indice – Fra Mauro camaldolese. – Il mappamondo di Fra Mauro. – Il mappamondo di Fra Mauro e le narrazioni di viaggio. – Dalle scritture di viaggio alla mappa mundi: letture selettive. – Fra Mauro e la citazione visuale del «Milione». – «Marco Polo and Fra Mauro were not liars!».
Nel Secondo volume delle Navigationi et Viaggi (1559) il testo del Milione è preceduto da una breve Dichiaratione di alcuni luoghi ne libri di M. Marco Polo. Con l’Historia del Rheubarbaro (ff. 13v-17v) in cui Ramusio discute alcuni loci dell’opera comparandoli con il racconto dei viaggi in Asia di Chaggi Memet, un mercante persiano da lui interrogato e ascoltato tramite l’interprete ufficiale della Repubblica, Michele Mambrè. Scopo della prima parte della Dichiaratione è dimostrare la veridicità della toponomastica poliana di fine Duecento, ormai divenuta desueta, e attualizzarla con quella praticata a Venezia tre secoli più tardi. Attraverso l’esegesi testuale e geografica, Ramusio intende dimostrare l’attualità del testo di Marco, e così avvalorare l’esperienza e cultura dei viaggi e della mercatura veneziana a fronte del ruolo preminente che Spagna e Portogallo avevano acquisito con i descobrimentos. Pur essendo un esercizio critico di grande interesse, si trattava tuttavia di una pratica editoriale divenuta molto comune, in particolare nell’edizione di testi geografici e cartografici antichi, come dimostra la coeva edizione veneziana del 1548 della Geografia di Tolomeo, curata e tradotta in italiano dal medico Pietro Andrea Mattioli (1501-1578), con le carte di un collaboratore di Ramusio, Giacomo Gastaldi, in cui gli indici toponomastici attualizzati occupavano più della metà del volume (La Geografia di Claudio Ptolemeo alessandrino, 1548). La Dichiaratione è invece un documento di grande importanza, un unicum e un prototipo nella storia dei testi e dei saperi, per un’altra ragione: nella parte finale (f. 17r), Ramusio vi espone la prima analisi di critica testuale che relaziona e discute puntualmente una narrazione di viaggio in comparazione con rappresentazioni cartografiche ad essa collegate e da essa derivate. Non solo: è anche il primo documento che svela il modo in cui nel Cinquecento venissero guardate e capite le mappae mundi più antiche che precedevano i viaggi di scoperta e di espansione oltre l’ecumene antica. Si tratta di una riflessione sulle pratiche di costruzione dello spazio di cui non si ha traccia in altri documenti più antichi o coevi e che vale la pena seguire in modo puntuale. Scrive Ramusio (parr. 88-89):
«Resta ch’io dica anchora in generale alquante cose sopra questo libro, ch’io già essendo giovane udi’ piú volte dire dal molto dotto et reverendo don Paolo Orlandino di Firenze, eccellente cosmografo et molto mio amico, che era priore del monasterio di San Michele di Murano a canto Venetia, dell’ordine de Camaldoli, che mi narrava haverle intese da altri fratri vecchi pur del suo monasterio. Et questo è come quel bel mapomondo antico miniato in carta pecora, et che hoggidí anchor in un grande armaro si vede a canto il lor choro in chiesa, la prima volta fu per uno loro converso del monasterio, quale si dilettava della cognitione di cosmografia, diligentemente tratto et copiato da una belissima et molto vecchia carta marina et da un mapamondo, che già furono portati dal Cataio per il magnifico messer Marco Polo et suo padre; il quale, cosí come andava per le provincie di ordine del Gran Can, cosí aggiugneva et notava sopra le sue carte le città et luoghi ch’egli ritrovava, come vi è sopra descritto.»
Ramusio si riferisce al celebre mappamondo disegnato a San Michele di Murano circa un secolo prima e lì custodito nella chiesa. La storiografia, almeno dal 1748 (Collina 1748, p. 3-5; Zurla 1806) avrebbe correttamente attribuito il mappamondo al converso camaldolese Fra Mauro († 1459 o 1464), ma al tempo di Ramusio si era persa memoria di chi fosse l’autore, in primo luogo all’interno della stessa congregazione camaldolese di San Michele mentre addirittura uno dei suoi generali più celebri, Pietro Dolfin (1444-1525) intorno al 1478-1480 avrebbe trasformato l’opera personalissima di Mauro nel “mappamondo di San Michele” (Cattaneo 2014).
Secondo Ramusio il mappamondo di San Michele sarebbe stato tratto dalle copie di un mappamondo e da una carta marina disegnati da Marco Polo durante i viaggi in Asia. Queste copie tuttavia sarebbero state corrotte, “per ignoranzia d'un altro che dopo lui lo dipinse e forní, aggiugnendovi la descrizione d'uomini e animali di piú sorti e altre sciocchezze”. Ramusio prosegue (par. 91):
«Ma poi che non molti anni sono per le persone giudiciose s’è incominciato a leggere et considerare alquanto piú diligentemente questo presente libro di messer Marco Polo che fin hora non si havea fatto, et confrontare quello ch’egli scrive con la pittura di lui, immediate si è venuto a conoscere che ’l detto mapamondo fu senza alcuno dubbio cavato da quello di messer Marco Polo, et incominciato secondo quello con molto giuste misure et bellissimo ordine: onde fin al presente giorno è dapoi continuamente stato in tanta veneratione et precio appresso tutta questa città, et coloro massime che si dilettano delle cose di cosmografia, che non è mai giorno che d’alcuno non sia con molto piacere veduto et considerato, et fra gli altri miracoli di questa divina città, nell’andare de’ forestieri a vedere i lavori di vetro a Murano, non sia per bella et rara cosa mostrato».
La ricchezza dei contenuti e la sorprendente e chiaroveggente ampiezza dello sguardo cosmografico del mappamondo dovuta principalmente, secondo Ramusio, al fatto di essere basato sulle carte di Marco Polo, ne facevano uno dei «miracoli di questa divina città». Dopo la celebrazione della bellezza e fama della mappa mundi nella Venezia di metà Cinquecento, Ramusio inizia il confronto con la narrazione di Marco, indicando le corrispondenze tra quanto scritto nel Milione e quanto riportato e disegnato nella mappa mundi di San Michele, per poi comparare il tutto con le nuove conoscenze che gli uomini della generazione di Ramusio disponevano e che nessuno più aveva potuto verificare dal ritorno di Marco a Venezia alla fine del Duecento. Per Ramusio gli errori e lo scarso ordine che si potevano a volte riscontrare nella carta di San Michele erano dovuti soprattutto a un copista che aveva corrotto il mappamondo e la carta marina originali. Per il resto, la mappa mundi era fedele rappresentazione sia della (presunta) cartografia di origine poliana (depurata però dalle aggiunte del copista), che del testo di Marco Polo, rispetto al quale indicava anche alcuni esempi di perfetta corrispondenza (parr. 92-93):
«Et anchor che quivi si vegghino molte cose essere fatte alquanto confusamente et senza ordine, grado o misura (il che si deve attribuire a colui che ’l dipinse et forní), vi si comprendono per ciò di molto belle et degne particularità, non sapute anchora né conosciute meno dagli antichi: come che verso l’antartico, ove Tolomeo et tutti gli altri cosmografi mettono terra incognita senza mare, in questo di San Michele di Murano già tanti anni fatto si vede che ’l mare circonda l’Africa et che vi si può navicare verso ponente, il che al tempo di messer Marco si sapeva, anchor che a quel capo non vi sia posto nome alcuno, qual fu per Portughesi poi a’ nostri tempi l’anno 1500 chiamato di Buona Speranza. Vi si vede appresso l’isola di Magastar, hora detta di San Lorenzo, et quella di Zinzibar, delle quali messer Marco parla ne’ capitoli 35 et 36 del terzo libro, et molte altre particularità nelli nomi dell’isole orientali, che dapoi per Portughesi a’ tempi nostri sono state scoperte».
In sintesi, secondo Ramusio la mappa mundi di San Michele deriverebbe da un mappamondo che un anonimo copista avrebbe disegnato a Venezia, in modo impreciso, aggiungendovi dettagli decorativi e di fantasia, traendoli da una carta nautica e da un mappondo disegnati dai Polo durante i loro viaggi in Asia. Fra Mauro avrebbe utilizzato questa copia in modo critico. Avvalendosi anche del Milione, avrebbe corretto parte degli errori che conteneva, e in modo così efficace che la derivazione dal testo e dalle presunte mappe originali di Marco Polo risultava immediatamente evidente. Per Ramusio la mappa mundi di Fra Mauro rappresentava un tentativo di lettura fedele e critica della geografia del Milione e della cartografia poliana.
Allo stato attuale della ricerca, non è dato sapere se le presunte opere cartografiche autografe di Marco Polo e le loro copie, più o meno fedeli, citate da Ramusio, siano davvero esistite. Nonostante questi, a primo acchito, appaia a questo proposito molto assertivo e sembri non avere dubbi sulla loro esistenza, non solo il mappamondo e la carta marina disegnate da Marco non si sono conservate – il che contrasta con l’enorme mole di codici (quasi 150) che trasmettono le molteplici redazioni del Milione –, ma al di fuori della Dichiaratione di Ramusio, che ebbe una eco a livello europeo, non vi sono altri riscontri documentali del Trecento o successivi, che direttamente o indirettamente, riferiscono della cartografia poliana. L’analisi linguistica della stessa Dichiaratione suggerirebbe inoltre che già intorno alla metà del Cinquecento, al tempo della redazione dei monumentali volumi delle Navigationi, le presunte carte disegnate da Marco fossero già perdute o quanto meno Ramusio non le avesse consultate; potrebbe invece aver consultato alcune carte che riteneva fossero le copie poco fedeli e corrotte, da esse derivate. La scrittura di Ramusio procede infatti in forma piuttosto generica: ricorda la testimonianza orale udita in giovinezza, alcuni decenni prima, dall’allora priore di San Michele Paolo Orlandini, che, a sua volta, aveva raccolto la testimonianza di vecchi frati del monastero; poi scrive in forma alquanto indeterminata di un certo momento, non ben specificato, in cui l’opera di Polo, incluse le carte, venne riconsiderata, dopo un lungo periodo di discredito. L’assertività della prima parte del racconto lascia il posto a uno stile piuttosto indefinito in cui le carte di Polo divengono una presenza allusiva, perduta.
A partire dal racconto di Ramusio, si potrebbe però avanzare un’altra ipotesi. La Dichiaratione potrebbe anacronisticamente proiettare sul XIII e XIV secolo, in particolare su Marco Polo, il modus operandi e la “mentalità cartografica” dei viaggiatori e dei cosmografi del Cinquecento. In altri termini, l’assertività di Ramusio sull’esistenza delle carte disegnate da Marco potrebbe riflettere la sua forma mentis secondo la quale era impossibile che i Polo non avessero registrato i propri viaggi in Asia anche in forma cartografica. A questo proposito, è utile ricordare che strettamente connessa alla raccolta e sistematizzazione delle fonti per le Navigationi et viaggi vi era la straordinaria opera cartografica di Giacomo Gastaldi (ca. 1500-1566) che disegnò le mappe che accompagnano la prima edizione delle Navigationi (Perocco 1994, p. 211-222; Busolini 1999). Rodolfo Gallo ha inoltre mostrato che il Milione fu la fonte principale per le rappresentazioni cartografiche del Cathaio e del Mangi (dunque, la Cina settentrionale e meridionale), e più in generale, dell’Asia per le carte commissionate a Gastaldi dalla Repubblica di Venezia per adornare la Sala dello Scudo di Palazzo Ducale, terminate nel 1553 e nel 1561 (Gallo 1955, pp. 197-231; Milanesi 2010, p. 11-26; Cattaneo 2011, p. 305-313; Milanesi 2012, p. 97-117). In mancanza di ulteriori riscontri documentali, si è costretti a rimanere nel campo delle congetture, con tuttavia una certezza indiscutibile: il mappamondo di San Michele, derivato o meno da presunte carte riconducibili direttamente o indirettamente a Marco Polo, è la prima rappresentazione cartografica sistematica che si sia conservata della imago mundi descritta nel Milione di Marco Polo, inquadrata e integrata in fonti nuove che si erano rese disponibili intorno alla metà del Quattrocento. La Dichiaratione di Ramusio invita a considerare la mappa mundi di San Michele, e il suo autore, il converso Fra Mauro, in particolare in relazione al testo di Marco Polo.
Disegnata intorno al 1450 «a contemplation di questa Illustrissima Signoria» – per omaggiare Venezia, ma anche perché fosse contemplata da Venezia (per il cartiglio completo vd. Gasparrini Leporace 1956, tav. XL, 49; Falchetta 2006, n. *2834; Cattaneo 2011, p. 166) – la mappa mundi, oggi universalmente nota come “mappamondo di Fra Mauro”, è annoverata tra le più importanti, visionarie, idiosincratiche opere cosmografiche di tutti i tempi. Esposta dal 1460 nella chiesa, poi dal 1655 nella biblioteca di San Michele in Isola, con la soppressione del monastero nel 1810 venne confiscata e portata dapprima alla Biblioteca di San Marco, due anni più tardi a Palazzo Ducale e dal 1924 di nuovo e definitivamente alla Marciana (Gasparrini Leporace 1956, pp. 11-16). Il mappamondo è celeberrimo e molto studiato. Sappiamo tuttavia molto poco del suo autore, Fra Mauro (ultimo quarto del XIV secolo – ca. 1459/1464), un converso del monastero di San Michele in Isola repentinamente dimenticato, finanche nel nome, e oscurato all’interno dell'Ordine Camaldolese, già a pochi anni dalla morte. Non conosciamo neppure il suo patronimico, ed è probabile che fosse di origini umili, forse portato al monastero per esservi cresciuto e lavorare come converso al servizio del cenobio, passandovi tutta la vita, come dimostrano pochi atti notarili e i registri contabili del monastero, presso il quale risulta registrato come converso già nel 1409. Non sappiamo come, dove e con chi imparò l’arte della cosmografia e cartografia, ma nei vent’anni che seguirono Fra Mauro si distinse come cosmografo e come conoscitore del territorio veneto. Nel 1437 disegnò una carta che oggi si direbbe “topografica” dei possedimenti del monastero camaldolese di San Michele di Leme in Istria, del 1437, per risolvere una disputa patrimoniale tra il monastero e un signorotto istriano (l’originale è perduto e se ne conserva solo un’edizione a stampa del 1762: Costadoni, Mittarelli 1762, VII, pp. 252-256). Nel 1444 venne incaricato dai Savi ed Esecutori alle Acque – un organo permanente con poteri esecutivi nella gestione della laguna – di fornire una perizia sulla deviazione del fiume Brenta (Venezia, AS, Savi ed Esecutori delle Acque, Capitolare I, B. 342, f. 47v, 2 agosto 1444; Venezia, AS, Zendrini 1726, II pp. 172-180). Il camaldolese Placido Zurla, basandosi su un libro contabile di San Michele oggi perduto (Registro 451: 1448/luglio 1449), indica che tra il 1448 e il 1449 Fra Mauro lavorava alla creazione di mappamondi (Zurla 1806, pp. 79-80; Woodward 1987, p. 367). È probabile che Fra Mauro allestì in questo periodo la mappa mundi conservata alla Biblioteca Marciana. Tra il 1453 e il 1456 Fra Mauro è citato nel registro delle spese di San Michele anche come riscossore di prebende, occupandosi soprattutto di sbrigare faccende economiche tra il monastero e Venezia, compiti umili e mondani, generalmente gestiti dai conversi. È tuttavia tra l’8 febbraio 1457 e il 24 aprile 1459 che il nome del camaldolese ricorre sovente nei registri di San Michele, impegnato nella preparazione di una mappa mundi per la maiestad del Segnor de Portugal, commissionata dalla corte di Afonso V (1432-1481) re di Portogallo e Algarve. A richiedere l’opera, per conto della corona portoghese, fu probabilmente l’ambasciatore João Fernandes Silveira, giunto a Milano e a Venezia nel 1456 per negoziare la partecipazione di milizie portoghesi al bando di crociata a seguito della caduta di Costantinopoli del 1453, promosso da papa Niccolò V e rinnovato da Callisto III (Monumenta Henricina, XII, pp. 202-204). A giudicare dalle modalità di preparazione della nuova mappa mundi – vennero impiegati scriptori e dipintori pagati a giornata, ma anche Andrea Bianco, un cartografo veneziano e comito delle galee – si trattava di una copia derivata da una mappa mundi già esistente, pagata complessivamente ventotto ducati e inviata in Portogallo il 24 aprile 1459, accompagnata dal patrizio veneziano Stefano Trevisan. Nulla esclude che potesse trattarsi di una elaborazione di quella ora conservata alla Biblioteca Marciana di Venezia (Roma, AS, San Gregorio al Celio, inv. 25/II, n. 9, n. 63, c. 125v, c. 169v; Lisbona, Arch. da Torre do Tombo, Chanceleria de D. Afonso V, liv. 1, c. 2). Allo stato attuale della ricerca, ignoriamo cosa sia accaduto al mappamondo inviato a Lisbona, e non sappiamo neppure se davvero vi giunse (Cattaneo, 2011, pp. 64-65, pp. 333-334). Da ritenersi congetturali sono interpretazioni recenti che vorrebbero che la carta, una volta giunta a Lisbona, venisse rispedita a Venezia perché inadeguata e antiquata (Falchetta 2011, p. 225-244). Infine, il 20 ottobre 1459, l’abate di San Michele Maffeo Girardi annotava nel Libro di entrata e uscita di San Michele che tutti i «mapamondi, desegni et scripture» di Fra Mauro vennero portati al monastero di San Giovanni della Giudecca, in una cassa chiusa da un lucchetto, poi riconsegnata ai monaci di San Michele, cinque anni più tardi, nell’ottobre 1464 (Roma, AS, San Gregorio al Celio inv 25/II, n. 9, n. 63, c. II). Questo documento suggeriva a Almagià (1944, pp. 32-39) l’ipotesi che Fra Mauro fosse morto tra il mese di maggio del 1459, quando l’abate Maffeo annotò di avere avuto da lui otto ducati, e il mese di ottobre 1459. È tuttavia possibile ipotizzare che il camaldolese non fosse morto nel 1459, ma che in quell’anno, per ragioni rimaste ignote, si fosse trasferito a Sant’Andrea della Giudecca, tra l’altro sede di un antico ospedale, e che lì fosse deceduto prima del 25 ottobre 1464, quando i suoi «mapamondi, desegni et scripture» furono definitivamente riportati a San Michele. Quale che sia la verità biografica, è importante rimarcare il fatto che l’abate Girardi scrivesse al plurale, dimostrando con certezza che l’opera complessiva di Fra Mauro fosse cospicua e comprendesse, oltre a diverse opere cartografiche, anche «desegni» e «scripture», tra le quali è lecito annoverare anche raccolte cosmografiche scritte, probabilmente preparatorie per gli estesi cartigli della mappa mundi.
La nota dell’abate Girardi, aggiornata all’ottobre 1464, si rivela anche premonitrice del destino intellettuale di Mauro. La cassa contenente le sue opere, depositata per cinque anni a San Giovanni della Giudecca, chiusa da un lucchetto, senza che nessuno potesse aprirla e consultarne i contenuti, marca una cesura nella vicenda esistenziale e intellettuale del converso. Nessun camaldolese, a San Michele, San Mattia di Murano, piuttosto che di San Giovanni della Gudecca, e neppure altri cartografi veneziani, come Bianco, che pure aveva già collaborato con Mauro, ne proseguì l’opera. L’attività di cosmografo di Fra Mauro, pur accettata, era eterogenea rispetto al monastero di San Michele, sia durante il lunghissimo priorato di Paolo Venier (1392-1448) che durante quello di Maffeo Girardi (priore dal 1448 al 1464). Prive di fondamento storico appaiono pertanto le recenti considerazioni che celebrano il «prestigioso laboratorio cartografico» di San Michele di Murano, nell’«isola della conoscenza» (Sebastiani 2012, p. 4). Fra Mauro lavorava a San Michele, ma non vi era alcun «laboratorio cartografico»: con la sua scomparsa, l'Ordine si limitò ad appropriarsi della sua opera maggiore, non curandosi del resto dei suoi «mapamondi e desegni e scripture», andati tutti perduti e dispersi già almeno dall’inizio del Settecento.
A lungo dimenticata, la figura di Fra Mauro è stata riscoperta a partire dalla metà del Settecento. Dopo quasi tre secoli di oblio, il camaldolese Abondio Collina (1691-1753), professore di matematica all’Università di Bologna, con l’aiuto dei padri di San Michele Giovani Benedetto Mittarelli (1708-1777) e Anselmo Costadoni (1714-1785), impegnati a compilare una storia documentaria dell’Ordine sul modello degli Annales del benedettino Jean Mabillon (1632-1707), riesumò Fra Mauro, oscuro converso di San Michele, e lo riconobbe quale «vero autore» – scriveva Collina – della mappa mundi per secoli conosciuta come “mappamondo di San Michele”, senza che mai il nome di Mauro le venisse associato (Collina 1748; Mittarelli 1779). Seguendo le orme dei padri annalisti, cinquanta anni più tardi, Placido Zurla (1769-1834) addirittura trasformò il mappamondo e il suo autore nell’emblema e baluardo dell’Ordine, nel quadro di una vera e propria operazione ideologica di invenzione di una tradizione scientifica dell’Ordine camaldolese. Che si trattasse di una operazione ideologica, è confermato dal recente reportorio delle figure più rappresentative dell’Ordine di Elisabetta Guerrieri, dall’inventario archivistico dei monasteri camaldolesi italiani di Cécile Caby, nonché dagli studi antichi di Giambattista Mittarelli e di quelli più recenti di Lucia Merolla sulla biblioteca di San Michele di Murano. Da prospettive diverse, questi studi mostrano che la storia culturale dei camaldolesi non ebbe figure o registrò avvenimenti particolarmente rilevanti per quanto riguarda l’elaborazione e la trasmissione di saperi scientifici quali l’astronomia o la cosmografia (Mittarelli 1779; Zurla 1806; Caby 1999; Cattaneo 2011, p. 310-313; Guerrieri 2012; Cattaneo 2014, p. 485-522).
Il mappamondo di Fra Mauro, l’ultimo grande esempio di cartografia non matematica nell’Italia del Quattrocento, si inquadra in tre processi storici che, intorno alla metà del secolo, avevano in Venezia uno degli agenti principali, se non l’agente principale, a scala europea ed ecumenica: lo sviluppo di reti di conoscenze a grande distanza; la fondazione di un’economia mondiale capitalista, infine, l’espansione e l’apertura mentale verso spazi e mari prima considerati come non accessibili all’uomo. Il mappamondo delinea l’imago mundi al tempo delle prime navigazioni portoghesi lungo le coste africane e ne anticipa e svela lo scenario cosmografico. Più che una rappresentazione del mondo, si tratta di un progetto visionario sul mondo, centrato sulla possibilità di unire attraverso rotte marittime oceaniche l’intera ecumene, da Zaiton, nel mar della Cina, fino al Mediterraneo, attraversando l’oceano Indiano. Cinquant’anni prima dei viaggi di Diogo Cão, Bartolomeu Dias, Vasco da Gama, Mauro annunciava la possibilità reale di circumnavigare l’Africa e navigare nell’oceano Indiano: unendo le navigazioni atlantiche portoghesi (supposte di 2000 miglia) con quelle nel mare Indicum degli «çonchi da India», letteralmente le “giunche indiane” (supposte di 2000 miglia), si otteneva, scriveva Mauro, una immensa rotta che univa i due mari. Una volta giunti nell’oceano Indiano era poi possibile collegarsi ai circuiti commerciali di Hormuz, a occidente, e Giava, in oriente, i più ricchi a scala ecumenica.
Dipinto e istoriato con colori luminosissimi, il mappamondo è inscritto in una cornice quadrata di 223 cm, all’interno della quale è posta una cornice circolare dal diametro di 196 cm. Oltre tremila iscrizioni – delle quali circa duecento sono cartigli complessi ed estesi, il resto toponimi – e centinaia di immagini (città, templi, monumenti funebri, strade, confini di province, navi), tra le quali si distingue nell’angolo inferiore sinistro il paradiso terrestre miniato da Leonardo Bellini (1423-25 – ca. 1490) danno forma all’opera di Fra Mauro (sul paradiso, Marcon 2001, pp. 103-108). La corografia e la geografia dei popoli, classiche e “moderne”, la cosmografia aristotelica del mondo sublunare, la cosmologia cristiana, la cartografia nautica e tolemaica, la letteratura odeporica trecentesca e quattrocentesca, sono inscritte nella cornice grafica della mappa mundi. Come le mappae mundi di Pietro Vesconte (Città del Vaticano, BAV, Pal. 1362B, ca. 1320), il cosiddetto Mappamondo genovese del 1457 (Firenze, BNC, Port. 1), la cosiddetta Carta catalano-estense (Modena, Bibl. Estense Univ., C.G.A.I, ca. 1460-70), tuttavia con un ampiezza euristica e conoscitiva molto più vasta, l’opera di Mauro è una cosmografia “di sintesi” che trae origine all’intersezione di milieux culturali plurimi (Woodward 1987, pp. 286-370; Milanesi 1990, p. 23). Scolastica, umanesimo, cultura monastica e ambiti meno dotti e più pratici, custodi di saperi che Maccagni (1993, pp. 631-676) definiva “dei tecnici” – in cui confluiscono computistica, abaco, pratiche di mercatura, arte della navigazione e cartografia nautica – sono strettamente correlati nell’unità epistemica della mappa mundi. Nel sapere mediato da Fra Mauro confluiscono e interagiscono matrici culturali, reti di conoscenza, linguaggi grafici e tecniche plurime. Fra Mauro compone un trattato cosmografico in forma encyclopediae attraverso un fitto confronto con le principali auctoritates della millenaria storia della philosophia naturalis e della cosmografia e, soprattutto, è da annoverarsi tra i primi lettori critici della Geografia di Tolomeo (Cattaneo 2005c, pp. 41-65; Gautier Dalché 2009; Cattaneo 2011, pp. 159-183). Tramite le opere di Marco Polo, Odorico da Pordenone, Niccolò de’ Conti, e la testimonianza orale di chi “avea visto a ochio”, accoglie importanti novità geografiche per il disegno delle coste dell’Africa, per il “Cataio” e il “Mangi”, le isole delle spezie e le grandi rotte di navigazione nell’oceano Indiano. È anche al livello della struttura narrativa che la mappa mundi, narrata da Fra Mauro in prima persona attraverso l’utilizzo iterato del pronome “io” – primo caso documentato nella storia della cosmografia e cartografia occidentali – mostra uno dei suoi aspetti peculiari. Il camaldolese fa ricorso alla narrazione in prima persona soprattutto in questioni che oggi potrebbero essere definite metodologiche. Si possono distinguere diversi ambiti: quando spiega le ragioni del suo operato, quando corregge o specifica le informazioni trascritte e infine quando vuole contrapporre e enfatizzare la propria opinione e la sua libertà di scelta rispetto a quella delle molteplici auctoritates, di volta in volta citate nella mappa mundi. L’“io” del cosmografo, ergendosi al livello degli auctores con i quali si confronta, avvalora o al contrario smentisce le loro opinioni in un confronto che il camaldolese pare volere imbastire anche con cosmographi suoi contemporanei, lasciati anonimi (Gautier Dalché 2004, pp. 39-51; Cattaneo 2005a; Cattaneo 2011, pp. 227-276).
Nella mappa mundi sono menzionate in modo esplicito circa quaranta opere. Tra gli auctores quattro gruppi sono distinguibili. Un primo gruppo che possiamo definire dei ‘teologi ed esegeti’, nel quale confluiscono i padri della chiesa e le loro fonti: Agostino, Boezio, Gerolamo, Giovanni Damasceno, Basilio, Giovanni Crisostomo, Beda, Rabano Mauro. Un secondo gruppo formato da Aristotele e dai suoi commentatori arabi e cristiani: Avicenna, Averroè, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Giovanni Sacrobosco, Campano da Novara, Giovanni Buridano (questi ultimi due non citati, ma riconoscibili). Un terzo gruppo è invece formato dai geografi del mondo antico, greci e latini: Dionisio Periegeta, Arriano, Plinio, Solino, Pomponio Mela, Claudio Tolomeo e anche Strabone, in un brevissimo accenno, che però rappresenta una vera primizia nella storia della ricezione della sua Geografia. Infine, vi è un quarto gruppo, quello dei viaggiatori-mercanti e dei geografi “moderni”, quasi mai direttamente nominati, tuttavia riconoscibili e identificabili: in particolare Marco Polo, Niccolò de’ Conti, Odorico da Pordenone, Fazio degli Uberti, insieme ad anonimi viaggiatori, indicati come “coloro che sono nassudi lì” o “questi i qual hano uisto ad ochio”, ai quali il camaldolese fa ricorso per quelle zone dell’ecumene ignote ai geografi antichi, in particolare l’Africa, il bacino dell’Oceano indiano e l’estremo Oriente (Cattaneo 2005b, pp. 157-202; Falchetta 2006; Cattaneo 2011, pp. 185-225).
Alcune precisazioni sono tuttavia doverose: quelli elencati sono esclusivamente i testi dichiarati da Fra Mauro. Quando si passa al tentativo di ricostruire la cultura del camaldolese, di stabilire cioè le fonti consultate in forma diretta, la questione si fa più complessa. Non solo Fra Mauro non consultò direttamente la maggior parte degli autori e dei testi che menziona, ma sono spesso testi e autori non dichiarati ad essere i più utilizzati e riconoscibili nei cartigli della mappa mundi. È una circostanza che potrebbe trovare una spiegazione nel fatto che autori come Tommaso d’Aquino – menzionato nella mappa mundi, ma non nel lungo cartiglio «Del numero de hi cieli secondo l’auctorità de hi sacri theologi» (Gasparrini Leporace 1956, p. 19; Falchetta 2006, p. 720), in cui Fra Mauro traduce in forma letterale un articolo della Summa theologiae, I, q. 68, art. IV – potessero essere immediatamente riconoscibili ai lettori dei cartigli e la loro citazione poteva essere ritenuta ridondante. Nel caso invece di Odorico da Pordenone e, soprattutto, di Marco Polo e di Niccolò de’ Conti, copiosamente utilizzati soprattutto nella rappresentazione dell’Asia e dell’oceano Indiano, e mai citati, si potrebbe addurre un’altra spiegazione: che non venissero esplicitamente menzionati in quanto non annoverabili tra gli auctores, neppure tra i novi, perché percepiti come “testimoni”, e come questi ultimi lasciati anonimi nel novero residuale di “chi ha visto a ochio”.
Se, dunque, le vere fonti della mappa mundi sono spesso celate, allo stesso tempo Fra Mauro si fa interprete di una cultura di florilegio. Accanto al sapere derivato dalle auctoritates, il camaldolese si fa portavoce anche di nozioni divenute patrimonio condiviso di un pubblico eterogeneo, assai vasto, formato da mercanti, notai, medici pratici, da litterati, non riconducibili a fonti specifiche (Cattaneo 2011, pp. 293-341).
Il mappamondo di Fra Mauro e le narrazioni di viaggio.
L’Asia centrale e meridionale e l’enorme bacino dell’oceano Indiano della mappa mundi sono disegnati attribuendo una rappresentazione grafica e spaziale al Milione di Marco Polo, alla relatio di Odorico da Pordenone OFM (1265-1331, missione in Asia dal 1318 al 1330), e al Liber IV del De varietate fortunae in cui l’umanista e segretario della curia pontificia Poggio Bracciolini (1380-1459) racconta il lungo viaggio in Asia del mercante chioggiotto Niccolò de’ Conti (1395-1469). In questo contesto, si valuterà il modo in cui le informazioni derivate da queste fonti eidetiche, in particolare dal Milione, sono integrate nel tracciato cartografico dell’Asia, mettendo in evidenza quali elementi sono stati privilegiati e quali invece ignorati da Fra Mauro nella costruzione della mappa mundi. Questi, in sisntesi, i risultati della ricerca. Lo studio dei rapporti tra le narrazioni di viaggio e la scrittura cosmografica di Fra Mauro indica quattro principali modalità di trasmissione e rielaborazione del sapere nel passaggio dalle narrazioni di viaggio alla mappa mundi. In primo luogo la citazione toponomastica dei nomi di città, fiumi, montagne, mari, province, regni; quindi la citazione riassuntiva o la parafrasi di interi brani, soprattutto quelli in cui vengono descritte le rotte commerciali e i luoghi di produzione di spezie e mercanzie di ogni tipo. Per il solo libro di Marco Polo vi sono infine due ulteriori modalità in cui il testo che racconta del viaggiatore veneziano entra nella cosmografia di Fra Mauro: attraverso la citazione visuale, in alcuni casi letterale, in altri creativa e immaginifica, di interi passi del Milione; infine, modellando la forma narrativa e sintattica dei cartigli della mappa mundi. Nel quadro di questa analisi, si prenderanno in considerazione soprattutto la citazione toponomastica, le legende della mappa mundi che riassumono da fonti eidetiche le citazioni visuali. Le legende della mappa mundi, soprattutto quelle che riguardano l’oceano Indiano, mettono in evidenza una sovrapposizione tra il Milione e il Liber IV, che rende necessaria un’analisi congiunta.
Gli esiti di questa ricerca riguardano due ambiti culturali generalmente lasciati separati: da un lato l’indagine si concentra sulle procedure di scrittura e disegno cartografico; dall’altro, l’interpretazione selettiva che Fra Mauro fece del Milione e del Liber IV del De varietate fortunae, considerati soprattutto per i loro contenuti di tipo “marchantadesco”, illustra uno dei modi in cui nel Quattrocento vennero lette le due narrazioni. Nel contesto di questo studio il riscontro filologico tra il testo della mappa mundi e le sue fonti non verrà preso in cosiderazione.
Dalle scritture di viaggio alla mappa mundi: letture selettive.
Oltre alla cosipcua citazione toponomastica, Fra Mauro si avvalse del libro di Marco Polo riassumendone o parafrasandone le descrizioni in brevi o brevissimi paragrafi. Esempio eloquente e indicativo delle modalità in cui si compie quest’opera di sintesi è la legenda che riguarda il Vecchio della Montagna:
«Qui antichamente dominaua uno signor dito el uechio | da la montagna, el qual per sua sagacità hauea fato | uno logo amenissimo de tute le delicie, piaceri e | deleti, e lì conduceua alguni homeni e aliena|uai p(er) modo li credeua q(ue)lo fosse el paradiso | e per questi piaceri a co(n)te(m)platio(n) de q(ue)sto signo(r) feuano gra(n) robarie | et occisio(n), p(er) la qual cossa | uno signor tartaro | prese questo luogo» (Gasparrini Leporace 1956, tav. XXVII, 43; Falchetta 2006, n. *1467)
Nel racconto poliano la storia del Vecchio della Montagna è abbastanza estesa; il camaldolese condensa la narrazione in pochissime righe. Icastici anche questi tre cartigli: «P(rouincia) çardandam. | Questi po|puli se do|ra i de(n)ti» (Gasparrini Leporace 1956, tav. XXVI, 7; Falchetta 2006, n. *1379); «In questo | monte se | troua ba|lassi assai» tav. XXXIII, 10; Falchetta 2006, n. *2376); «In questo colfo | se pesca | perle» (Gasparrini Leporace 1956, tav. XV, 6; Falchetta 2006, n. *271). Questi brevissimi cartigli iassumono in una sola riga, lapidaria, tre dei più lunghi capitoli del Milione (R II 41; R I 25 e R III 20). A fronte della mole notevole di informazioni fornita in questi capitoli, Fra Mauro coglie e seleziona pochissimi elementi se non addirittura uno solo; come si analizzerà di seguito, la scelta del camaldolese privilegia generalmente gli aspetti “marchantadeschi”.
Lo stesso procedimento riassuntivo ‘essenziale’ si estende a molti altri passi del libro di Marco Polo, come anche al Liber IV del De varietate fortunae. Tuttavia, le legende tratte dal racconto di Niccolò de’ Conti trascrivono una quantità di testo mediamente maggiore rispetto a quelle derivanti dal libro di Marco Polo. Questo trova una spiegazione nel fatto che le citazioni dal De varietate fortunae si riferiscono soprattutto alla parte meridionale dell’Asia e al grande bacino dell’oceano Indiano che, essendo più poveri di toponimi e disegni rispetto alla parte continentale dell’Asia, lasciavano a Fra Mauro più spazio per la compilazione dei cartigli.
Senza alcuna pretesa di esaustività, segue un elenco esemplificativo di alcuni cartigli della mappa mundi che con certezza riassumono passi del Milione e del De varietate fortunae, ordinati secondo le tavole dell’edizione facsimile di Gasparrini Leporace 1956, in riferimento ai passi di R e all’edizione del Liber IV del De varietate fortunae curata da Merisalo 1993 (DV).
«Nota | de la | nobilis|sima iso|la de say|lan e de | le sue mi|raueie» (VIII, 5): R III 19 / DV IV 85: R III 23.
«Isola colombo. Questa è abondante | d’oro […]» (VIII, 3*): R III 25. «Le naue ouer çonchi che nauegano questo mar […]» (IX, 16): R III 1. «Mahal isola habita[da] per cristiani […]» (III, 6): R III 34.
«[…] e acostandose la naue […] i marinari uedeno uno ouo de uno oselo nominato chrocho…» (X, A 13): R III 35.
«In questo cauo | de chomari se perde | la tramontana» (XV, 5): R III 25.
«Insula andama(n) in dromo de taprobana […]» (XIV, 39): R III 18.
«Iso[la de | Sayla[m]» (XIV, 11): DV IV 85.
«Isole lamuri, nauagari e arij […]» (XIV, 8): R III 15.
«Nota che queli che nauegano questo ma(r) | de india […]» (XV, 9): R III 25.
«Isola hormus […]» (XV, 69): R III 43 (si noti che Fra Mauro riduce tre pagine del Milione in tre linee) / DV IV 44-45.
«Isola sochotra posta tra el mar de persia […]» (XVI, 26): R III 34. «Giaua maçor, isola nobillissima posta i(n) leua(n)te […]» (XIX, 16*): R III 7 / DV IV 111-19.
«In questa proui(n)cia | se troua turchese […]» (XXI, 63) R I 13.
«Questa nobillissima cità dita chansay […]» (XXV, M 30): R II 68.
Lo studio dei cartigli che sintetizzano i capitoli delle narrazioni di Marco Polo e Nicolò de' Conti indicano che Fra Mauro leggeva il Milione e il Liber IV del De varietare fortunae alla stregua di libri di mercatura, di “tariffe”. Il camaldolese seleziona nel vasto spettro di argomenti trattati i loci significativi dal punto di vista della descrizione commerciale dell’Asia e dell’oceano Indiano, soffermandosi soprattutto sui luoghi di produzione delle “marchadantie”, soprattutto spezie, oro, argento e perle, integrandoli nelle grandi rotte di commercio che dall’oceano Indiano giungevano in Medio Oriente e da lì in Europa. Fanno eccezione alcune descrizioni dei popoli dell’Asia, così come dell’opulenza delle città asiatiche e della corte del Gran Khan; infine, tra le pratiche di culto, i riti funebri. Per ciò che riguarda soprattutto il Milione, le ampie sezioni narrative riguardanti i popoli, i culti, le battaglie, non vengono presi in coniderazione nella narrazione del camaldolese. Fra Mauro ignora completamente anche le parti del libro di Marco Polo in cui, tramite i procedimenti stilistici che Rustichello imprime al racconto di Marco, il dettato geografico sposa il genere del romanzo cortese; così come non tiene conto della figura di Marco, personaggio dentro il libro. Fra Mauro vede dunque nel Milione e nella redazione di Bracciolini del viaggio di de’ Conti soprattutto regesti di mercanzie che si potevano trovare nelle piazze commerciali orientali e che dispone graficamente sull’intelaiatura geografica della mappa mundi. Nell’orientare la lettura selettiva delle proprie fonti eidetiche agli aspetti e alle notizie di tipo commerciale Fra Mauro conferma un’attitudine e un interesse che trovarono espressione già ben definita nella cartografia e nella geografia del XIV secolo, ad esempio nella carta disegnata a Genova nel 1367 dai fratelli Pizzigano, così come nell’Atlante Catalano disegnato intorno al 1375. Ciò che Fra Mauro apporta di nuovo rispetto ai documeni precedenti e coevi non è dunque l’interesse per gli aspetti commerciali dell’Oriente, quanto uno sguardo più sistematico e completo sulle “marchadantie” e i circuiti commerciali dell’Asia. È un’istanza che trova due ordini di spiegazioni: da un lato la rete più vasta d’informazioni sui commerci con l’Oriente disponibile a Venezia che Fra Mauro integrava con fonti classiche – soprattuto a questo proposito Plinio; dall’altro, rispetto alla maggior parte dei documenti cartografici del tempo, il camaldolese aveva a disposizione una maggiore quantità di spazio grafico che gli consentiva una rappresentazione più particolareggiata dei prodotti, empori, porti e delle vie commerciali che attraversavano l’oceano Indiano e l’Asia centrale.
Se dunque la mappa mundi si inserisce in termini di continuità nelle tradizioni di rappresentazione dell’Oriente che privilegiavano informazioni e interessi commerciali, questo particolare aspetto della trasmissione del sapere mercatile dalle narrazioni di viaggio alla mappa mundi assume un ulteriore valore documentale: consente infatti di cogliere e completare con la dimensione spaziale il quadro dei commerci tramandato in forma scritta dai cosiddetti “libri della mercatura”, come quello di Francesco Balducci Pegolotti, Paolo di Canal, e dalle lettere commerciali che hanno costituito il cardine del commercio europeo, a partire dal XII secolo. Evidenziando dalla complessità della struttura e della narrazione cosmografica di Fra Mauro i loci in cui le spezie vengono citate si ottiene di fatto una delle prime rappresentazioni cartografiche tematiche della produzione e del commercio delle spezie nell'oceano Indiano come percepita a Venezia alla metà del Quattrocento, o quanto meno, come trascritta da Fra Mauro nella mappa mundi (Cattaneo 2005b; Cattaneo 2011, pp. 207-211).
La lettura e la mediazione che Fra Mauro fece del Milione e del Liber IV del De varietate fortunae lascia intendere e percepire anche quale potesse essere l’interesse per queste due narrazioni. Nel redigere la propria sintesi “marchantadesca” delle due opere, il camaldolese verosimilmente faceva proprio lo sguardo di parte del pubblico per il quale la mappa mundi era stata disegnata: i mercanti veneziani, portoghesi, fiorentini, i gruppi sociali che sarebbero stati i protagonisti dei viaggi di scoperta e di conquista patrocinati dalla corona portoghese e, successivamente, da quella spagnola verso le Indie. La lettura attuata da Fra Mauro parrebbe indirettamente corroborare un’ipotesi formulata da Borlandi (1962) e Tucci (1976, pp. 642-646) che, sulla base di un’intuizione di Benedetto (1928, pp. XXVI-XXVII), hanno sostenuto che all’origine del libro vi fosse una pratica di mercatura, una compilazione riguardante distanze tra città, province, modi e tempi di percorrenza, merci, in particolare spezie, con i loro luoghi di produzione e rotte commerciali, pesi, misure, ragioni di scambio, verosimilmente compilata da Marco Polo durante il lungo soggiorno in Asia. Inoltre, i cartigli più estesi della mappa mundi che riguardano le “marchadantie” rivelano un’affinità compositiva con quelle parti del Milione per le quali Borlandi ha dimostrato una più stretta similarità nella struttura narrativa con quelli delle pratiche di mercatura, in particolare quella di Francesco Balducci Pegolotti (1301-1350), compilata circa quarant’anni dopo il libro di Polo, verso il 1340, sulla base tuttavia di informazioni aggiornate all’inizio del Trecento (Borlandi 1962, pp. 111-115).
Fra Mauro e la citazione visuale del «Milione».
L’uniformità stilistica, delle forme e dei colori, è tra gli aspetti più evidenti della mappa mundi. Una serie infinita di città, castelli, ponti, si distende nello spazio grafico della mappa mundi. Le miniature di città, edifici, navi, ponti, sono rappresentazioni in gran parte congetturali. Ad esclusione di pochi disegni – quelli delle galee e delle navi che solcano il Mediterraneo e il “Mar delle Tenebre”, dipinte con un gusto evidente per la verosimiglianza – il tentativo di rintracciare sulla carta informazioni e dettagli relativi al mondo “reale” rimane a prima vista frustrato. La maggior parte delle città, degli edifici, dei paesaggi, delle navi, disegnati da Fra Mauro non sono il risultato di osservazione diretta: sono rappresentazioni immaginifiche. Un’analisi più accorta porta tuttavia ad individuare una forma di attenzione al “reale” che non è il risultato dell’osservazione autoptica da parte del cartografo, quanto invece di un’attenzione “realistica” a quanto raccontato dalle sue fonti. Fra Mauro cerca cioè di raffigurare con fedeltà quanto legge e apprende, esprimendosi nella forma di un realismo che si potrebbe definire “congetturale”. Si tratta di un aspetto davvero peculiare nella storia delle rappresentazioni cartografiche. Le immagini della mappa mundi sono in alcuni casi delle citazioni visuali, a volte letterali, a volte creative, di costumi, elementi architettonici, descritti dalle fonti scelte da Fra Mauro, in particolare il Milione.
I mirabilia di Solino e Plinio, del Romanzo di Alessandro, del Livre des merveilles du monde di Jean de Mandeville non vengono né presi in considerazione, né raffigurati nella mappa mundi. Fra Mauro predilige alcuni passi del libro di Marco Polo, i cui racconti vengono illustrati nel mappamondo con disegni prospettici e, a volte, con complesse narrazioni figurate. Fra Mauro preferisce rappresentare le città, i ponti, le navi, trascurando del tutto gli abitanti e gli animali. Solo in un caso è possibile intravedere, sotto l’arcata di un «edificio mirabile di idoli», in altre parole, un tempio, una figura stilizzata e molto cruda, che potrebbe essere interpretata come una statua («Hedificio no|bile di idoli»: Gasparrini Leporace 1956, tav. XXXII, 39; Falchetta 2006, n. *2286). Questo aspetto indica che l’abilità pittorica di Fra Mauro e dei copisti che che hanno collaborato alla preparazione della mappa mundi non andava oltre il disegno tecnico, non consentendo di rappresentare figure antropomorfe o del mondo animale e vegetale, con la sola ecczione di pesci molto stilizzati.
In un saggio classico che tratta della iconografia che accompagna i manoscritti del racconto di Marco Polo, Rudolf Wittkower (1957) sottolineava che le immagini che illustrano la maggior parte dei manoscritti del Milione poco hanno a che fare con quanto narrato nel testo di Marco: «laddove Marco Polo poco o nulla indulge nella teratologia e nel meraviglioso, un trionfo di mostri e meraviglie contraddistingue l'iconografia dei manoscritti poliani». Wittkower faceva notare che le miniature del Livre des Merveilles si ispirano ai mirabilia sulla scia dei testi che raccontavano le meraviglie dell'Oriente. Esempio emblematico citato da Wittkower è la rappresentazione degli “unicorni”. Marco Polo, parlando degli unicorni, descrive dei rinoceronti, in forma molto realistica:
«Hanno molti elefanti salvatichi et leoncorni, che sono molto minori degli elefanti, simili alli buffali nel pelo; li suoi piedi sono simili a quelli degli elefanti; hanno un corno in mezzo del fronte, et nondimeno non offendono alcuno con quello […]. Hanno il capo come d’un cinghiale, et portano il capo basso verso la terra. Et sta volentieri nel fango, et sono bruttissime bestie, et non sono tali quali si dicono esser nelle parti nostre, che si lasciano prendere dalle donzelle, ma è tutto il contrario» (R III 12 3-5)
Ma gli illustratori ricorrono, per rappresentare questo passo, all’iconografia tradizionale dell’unicorno. Il confronto tra le citazioni visuali che Fra Mauro fa del testo di Marco Polo con l'apparato iconografico dei codici del Milione consente di affermare che Fra Mauro fu tra i primi, se non il primo, “illustratore” del racconto di Marco ad affrontare la rappresentazione visuale del testo con fedeltà, a volte addiritttura “letterale”. Prendiamo in considerazione e analizziamo cinque rappresentazioni tratte dalla mappa mundi, a prima vista immaginarie, che si rivelano invece citazioni attente e realistiche di passi specifici del racconto di Marco Polo e, in un caso, anche di Niccolò de’ Conti.
(a) Le giunche dell’oceano Indiano.
Un primo caso emblematico di realismo congetturale è quello dei “çonchi” a quattro alberi che Fra Mauro disegna nell'oceano Indiano. Nella mappa mundi sono rappresentate 63 navi, di varia stazza e forma. Le navi a quattro alberi, con un solo timone e la chiglia rettangolare sono un preciso riferimento alle giunche cinesi descritte da Marco Polo. La rappresentazione dei “çonchi” è spiegata da un cartiglio che ne illustra le peculiarità insieme ad un accenno alla navigazione astronomica praticata con queste navi nell’oceano Indiano: «Le naue ouer çonchi che nauegano questo mar por|tano quatro albori e, oltra de questi, do’ che se può | meter e leuar et ha da 40 in 60 camerele p(er) i mar|chadanti e p(or)tano uno solo timo(n) ; le qual naue|ga sença bossolo, p(er)chè i portano uno astrologo el | qual sta i(n) alto e separato e co(n) l’astrolabio in | man dà ordene al nauegar» (Gasparrini Leporace 1956, tav. IX, 16; Falchetta 2006, n. *48).
La comparazione tra il disegno, il cartiglio di Fra Mauro e il passo seguente del Milione mostra almeno parzialmente la derivazione (R III 1 1-5):
«Poi c’habbiamo detto di tante provincie et terre, come havete udito di sopra, lascieremo il parlar di quella materia et comincieremo a entrare nell’India, per referire tutte le cose maravigliose che vi sono, principiando dalle navi de’ mercanti, le qual sono fabricate di legno di abiete et di zapino, et cadauna ha una coperta sotto la qual vi sono piú di sessanta camerette, et in alcune manco, secondo che le navi sono piú grandi et piú picciole, et in cadauna vi può stare agiatamente un mercante. Hanno un buon timone et quattro arbori con quattro vele, et alcune due arbori, che si levano et pongono ogni volta che vogliono. […] Queste navi che sono grandi vogliono trecento marinari, altre dugento, altre centocinquanta, piú et manco, secondo che sono piú grandi et piú picciole, et portano da cinque in seimila sporte di pevere.»
Fra Mauro, che verosimilmente non vide mai una giunca cinese, tenta di darne una rappresentazione realistica, seguendo in modo quasi letterale la descrizione di Marco Polo. I quattro alberi, il timone, la forma quadrata della chiglia mirano ad evidenziare la diversità delle giunche rispetto alle navi tonde delle tradizioni marinare occidentali e arabe. Le dimensioni fuori proporzione rispetto all’insieme, consentono al camaldolese di rappresentare molti dettagli del racconto di Polo: si intuiscono, ad esempio, diversi pontili che richiamano le stanze dei mercanti descritte dal veneziano, segno tangibile della volontà di Fra Mauro di essere molto fedele al dettato del Milione.
(b) Il palazzo di Cambaluc e le tende da caccia del Gran Khan.
Un secondo esempio di citazione visuale, quasi letterale, del racconto di Marco Polo è costituito dall’immagine di Cambaluc attraversata da un fiume e dalle tende da caccia. La raffigurazione della città e delle tre tende assume un significato più preciso alla luce di due passi del testo di Marco Polo (R II 7 1 e R II 16 12-17):
«La città di Cambaluc è posta sopra un gran fiume nella provincia del Cataio, et fu per il tempo passato molto nobile et regale […]»;
«Et quando ha uccellato per alquante hore, se ne viene ad un luogo chiamato Caczarmodin, dove sono le trabacche et i padiglioni delli suoi figliuoli et d’altri baroni, cavalieri et falconieri, che passano diecimila, molto belli. Il padiglione veramente del signore, nel quale tiene la sua corte, è tanto grande et amplo che sotto vi stanno diecimila soldati, oltre li baroni et altri signori; ha la porta verso mezzodí; vi è anchora una altra tenda verso levante, a questa congiunta, dove è una gran sala dove stantia il signore con alcuni suoi baroni, et quando vuol parlare ad alcuno lo fa entrare in quella. Doppo la detta sala è una camera grande, molto bella, nella qual dorme. Sonvi molte altre tende et camere, ma non sono insieme congiunte con le grandi. Et tutte le sopradette camere et sale sono ordinate in questo modo, che ciascuna ha tre colonne di legno intagliate con grandissimo artificio et indorate. Et detti padiglioni et tende di fuori sono coperte di pelli di leoni, et vergate di verghe bianche, nere et rosse, et cosí ben ordinate che né vento né pioggia li può nuocere».
La citazione rende evidente che Fra Mauro cerca di dare una visibilità realistica al testo di Marco: i particolari delle tre tende riccamente ricoperte e il fiume che entra e riesce da Cambaluc rispecchiano fedelmente alcuni dettagli raccontati da Marco nella lunga descrizione della capitale dell’impero mongolo e delle attività venatorie dell’imperatore. La descrizione della residenza invernale di Cambaluc e del campo da caccia estivo appartengono a due diversi capitoli del libro di Marco Polo. Nel suo lavoro di continua sintesi, Fra Mauro le trasforma e riunisce in una sola rappresentazione: il palazzo invernale di Cambaluc e il sontuoso campo da caccia estivo, per la «sua diletevole uenation», diventano un unico disegno.
(c) Il “ponte mirabile” sul fiume Pulisangan e le strade del Mangi.
La regione del Cataio, tratta interamente dal racconto di Marco Polo, offre un altro esempio molto interessante di citazione visuale: il “ponte mirabile” sul fiume, una delle rappresentazioni più grandiose nella mappa mundi e la strada che, passando per il ponte, procede poi verso sud, biforcandosi a occidente, verso la regione del Mangi, sono rappresentazioni letterali di quanto scritto dal veneziano (R II 27 2-6):
«Come si parte dalla città di Cambaluc et che si ha camminato dieci miglia, si trova un fiume nominato Pulisangan […] Sopra detto fiume è un ponte di pietra molto bello, et forse in tutto il mondo non ve n’è un altro simile. La sua lunghezza è trecento passa et la larghezza otto, di modo che per quello potriano commodamente cavalcare dieci huomini l’uno a lato all’altro. Ha ventiquattro archi et venticinque pile in acqua che li sostengono, et è tutto di pietra serpentina, fatto con grande artificio. Dall’una all’altra banda del ponte è un bel poggio di tavole di marmo et di colonne maestrevolmente ordinate, et nell’ascendere è alquanto piú largo che nella fine dell’ascesa, ma, poi che s’è asceso, trovasi uguale per lungo come se fosse tirato per linea […]».
Oltre al disegno, una breve legenda posta sopra al ponte riassume la descrizione di Marco:
«Ponte mirabile e famoso co(n) tresento | archi e siemil a imagine de lioni | i qual reze tante collone co(n) i suo capi|telli a più suo adorname(n)to, | super el qual se trau(er)sa el fiu|me polisanchin» (Gasparrini Leporace 1956, tav. XXXII, 75; Falchetta 2006, n. *2315).
La comparazione tra il testo e l’immagine del ponte nella mappa mundi con la descrizione di Marco Polo mette in evidenza il rapporto di dipendenza “creativa” tra il testo poliano e la carta. Guardando alla rappresentazione d’insieme, è da notare la vicinanza tra il ponte e la città di Cambaluc, che Marco poneva infatti a dieci miglia. Poco più a sud, passata la città di Çianglu e di Chacianfu, Fra Mauro disegna una strada che in poche miglia si divide in «strada del Mangi» e «strada del Cataio». Ancora una volta, la rappresentazione segue in modo letterale e corografico il racconto poliano (R II 28 1-4):
«Partendosi da questo ponte et andando per trenta miglia alla banda di ponente, trovando di continuo palazzi, vigne et campi fertilissimi, si trova una città nominata Gouza, molto bella et molto grande, nella qual sono molte abbacie di idoli, le cui genti vivono di mercantie et arti. […] Partendosi da questa città et andando per un miglio si trovano due vie, una delle quali va verso ponente, l’altra verso sirocco: per la via di ponente si va per la provincia del Cataio, per la via di sirocco alla provincia di Mangi. Et sappiate che dalla città di Gouza fino al regno di Tainfu si cavalca per la provincia del Cataio dieci giornate, sempre trovando molte belle città et castella, fornite di grandi arti et mercantie, et trovando vigne et campi lavorati […]».
L’intera scena riassume il dettato di Marco: gli alberelli lungo la strada si riferiscono verosimilmente alle «vigne et campi fertilissimi»; poco più a sud, l’«Hedificio no|bile di idoli» (Gasparrini Leporace 1956, tav. XXXII, 39) potrebbe riferirsi alle «molte abbacie di idoli» del Milione.
(d) I carri ricoperti di feltro dei Tartari.
Anche le case poste sui carri ricoperti di feltro, a due e quattro ruote, che Fra Mauro disegna in Tartaria e nella parte settentrionale della Rossia, sono citazioni visuali di un passo del Milione che descrive le usanze dei Tartari. La comparazione con il testo permette senza ombra di dubbio di cogliere la derivazione (R I 45):
«I Tartari non stanno mai fermi […] Hanno oltre ciò carrette bellissime di due rote solamente, coperte di feltro, et cosí bene che se piovessi tutto il giorno non si potria bagnar cosa che fosse in quelle, qual menano con buoi et camelli. Sopra quelle conducono i loro figliuoli et mogli, et tutte le massarie et vettovaglie che li bisognano.»
(e) La sepoltura dei Gran Chan.
Caso interessante di citazione visuale, in una tipologia nuova rispetto ai casi precedenti, è invece la montagna con il tempio e le sepolture dei Gran Chan. Si tratta di una citazione visuale che amplifica il racconto di Marco Polo. Laddove Marco Polo racconta solo di una montagna dove venivano sepolti i Gran Chan:
«Et dovete sapere che tutti i Gran Can et signori che descendono dalla progenie di Cingis Can si portano a sepelire ad un gran monte nominato Altay, et in qualunque luogo muoiano, se ben fossero cento giornate lontani da quel monte, bisogna che vi sian portati. Et quando si portano i corpi di questi Gran Cani, tutti quelli che scontrano pel cammino quei che conducono il corpo gli ammazzano […]» (R I 44 3-4)
Fra Mauro immagina la sepoltura in un tempio grandioso, il più grande tra quelli disegnati nella mappa mundi, posto sulla sommità di una montagna. Alla citazione toponomastica «Monte alchai» (Gasparrini Leporace 1956, tav. XXXVIII, 38) Fra Mauro fa seguire una amplificazione visuale del racconto di Polo: immagina una sepoltura imperiale, non descritta dal Veneziano, e la costruisce in un improbabile gotico europeo, probabilmente volendo sottolineare e intendere la grandiosità e la potenza dei Khan, come descritta in altri passi del Milione.
«Marco Polo and Fra Mauro were not liars!».
Questo studio afferma una divergenza di metodo rispetto a quanto è stato recentemente scritto sullo statuto epistemico delle narrazioni di viaggio, sia in termini di struttura narrativa, che in riferimento ai modelli utilizzati per raccontare il mondo lontano o ciò che era “nuovo” per l’occidente cristiano. In particolare, in uno studio spesso citato, Greenblatt (1991, p. 7) scriveva:
«The authors of the anecdotes with which this book concerns itself were liars – few of them steady liars, as it were, like Mandeville, but frequent and cunning liars none the less, whose position virtually required the strategic manipulation and distortion and outright suppression of the truth. But though they were liars, European voyagers to the New World were not systematic, so that we cannot have the hermeneutic satisfaction of stripping away their false representations to arrive at a secure sense of reality. Instead we find ourselves groping uneasily among the mass of textual traces, instances of brazen bad faith jostling homely (and often equally misleading) attempts to tell the truth».
Usando lo stesso registro retorico di Greenblatt, questo contributo potrebbe concludersi con la sententia «Marco Polo and Fra Mauro were not liars». Non solo il camaldolese non era un “mentitore”, ma soprattutto le categorie “verità” e “menzogna”, usate alla maniera di Greenblat, si rivelano inadeguate e naïves, per non dire grossolane, sia dal punto di vista euristico che analitico, quando rapportate alle tradizioni discorsive delle narrazioni di viaggio e delle mappe tra basso Medioevo e prima modernità (e, ovviamente, non solo). Lo studio concreto dei dettagli dei rapporti tra la fonti eidetiche del camaldolese e la sua trascrizione cartografica mostrano che Marco Polo (con la mediazione di Rustichello da Pisa e degli altri anonimi mediatori delle numerose redazioni del racconto dei viaggi del veneziano), Niccolò de’ Conti (con la mediazione di Poggio Bracciolini) e Fra Mauro, loro lettore accorto, dispiegavano un’attitudine che assumeva forme e tonalità di attenzione al reale e a ciò che era nuovo per l’Occidente cristiano che sfuggono alla griglia “concettuale” a maglie troppo larghe, sfilacciate, di “verità” o “menzogna” di Greenblat. Altre considerazioni in Marvellous Possessions, ad esempio quella di assumere l’utilizzo e la persistenza di modelli narrativi e strutture retoriche derivate dal “romanzo satirico” come “prova” di questo esercizio di falsificazione sistematica, sembrano avventate. La constatazione della contaminatio, usata così maldestramente, mi sembra “scopra” semplicemente l’ovvio. Quali alternative al linguaggio e a tradizioni discorsive condivise ci sarebbero per la formulazione di qualunque racconto, compresi quelli di viaggio? Quali possibilità ci sarebbero per descrivere ciò che è nuovo oltre a quelle di ricorrere a “linguaggi e retoriche (almeno in parte) condivisi”? (Chartier, 1998, pp. 67-106). Molto più efficaci continuano a essere le premesse metodologiche tracciate da Leonardo Olschki nella sua Storia letteraria delle scoperte geografiche. Come è evidente fin dal titolo, vi si esprimeva il «proposito di applicare i metodi della critica filologica e, in più ristretto senso, letteraria alla ricostituzione e all'interpretazione delle relazioni di viaggi e delle descrizioni di terre e di popoli» (Olschki 1937, p. 1). Questo studio partiva dalla considerazione, solo apparentemente scontata, che ciò che rimane del passato, in termini documentali, assume la forma di tradizioni discorsive e che l’analisi e l’interpretazione non possa dunque esimersi da un confronto filologico con e tra queste tradizioni, se vuole cercare di avvicinarsi alla verità storica di queste narrazioni. Lo studio della mappa mundi nei suoi rapporti con le scritture di viaggio trecentesche e quattrocentesche riflette una cultura nella quale tradizione, sapere scritto e esperienza coesistono e si integrano. Su un tracciato tolemaico, disegnato secondo la sintassi della cartografia nautica, Marco Polo e Niccolò de' Conti sono posti l'uno accanto all'altro, con accenni anche a Solino, Plinio e Pomponio Mela. È questo un abito mentale che caratterizza una fase culturale che non respinge né il miracoloso né il meraviglioso; accoglie gli auctores veteres e i novi, li confronta, allo stesso tempo in cui ha gran cura di attenersi all'esperienza, non solo registrandola, ma rielaborandola, confrontandola con le auctoritates, insomma assumendo atteggiamenti critici nei suoi riguardi (Branca, 1994, pp. 39-60). I dualismi “verità-menzogna”, “novità-tradizione” non aiutano certo a comprendere queste straordinarie narrazioni, il Milione e la mappa mundi di Mauro.