2. Ramusio e la tradizione del «Milione»

(Eugenio Burgio e Samuela Simion)

Indice – Preliminari.La redazione F.La redazione Z.La redazione VA.La redazione P.La redazione VB.La redazione L.La redazione V.

Preliminari [EB]

Come ha anticipato Alvaro Barbieri, e come sarà spiegato con qualche dettaglio nei prossimi paragrafi, il testo de I viaggi di Messer Marco Polo fu l’esito di un paziente esercizio di filologia: Ramusio collazionò con infinita acribia versioni diverse del Milione, ne ricompose il testo “montando” su un telaio in certa misura prestabilito le tessere informative estratte dalle sue fonti, e lo offrì ai suoi contemporanei in una veste linguistica del tutto “moderna” (tagliata sulle recentissime riflessioni delle Prose della volgar lingua di Bembo, applicate – con un significativo spostamento di piano – non alle “Belle lettere”, ma alla prosa a funzione informativa e argomentativa). Quali fossero le fonti di questo lavoro – i volumi presenti fisicamente sullo scrittoio di Ramusio – era già chiaro a Benedetto (1928), e gli atti relativi a una recente e approfondita ispezione del corpo de I viaggi (Burgio 2011a) – in un seminario in cui ha preso forma per la prima volta l’idea di questa edizione ipertestuale – hanno confermato e precisato le evidenze raccolte con ammirevole esattezza da Benedetto: in ordine di probabilità decrescente, un esemplare della più fortunata (e “internazionale”) versione in latino del Milione – il Liber domini Marchi Pauli de Veneciis de condicionibus et consuetudinibus orientalium regionum del domenicano Pipino (“redazione P”); un volume, chiamato col nome dei proprietari (i Ghisi, patrizi veneziani), contenente un diverso Milione latino (“redazione Z”), anonimo e redatto molto probabilmente a Venezia; una copia di una versione in veneziano (Meser Marco Polo, La so lezenda: “redazione VB”); e infine, forse, altri due volumi: un elegante riassunto in latino, anch’esso elaborato in Veneto, forse addirittura a Venezia (gli Extracta et translata de libro Domini Marchi Paulo de Veneciis: “redazione L”), e una seconda versione veneziana (il Libro chiamado dela insti‹tu›zione del mondo: “redazione V”).

Ramusio lavorò insomma “in casa”: ricorrendo a edizioni circolanti in città, redatte nell’idioma locale o nella lingua più familiare a un umanista. La nostra edizione darà conto delle caratteristiche e delle qualità intrinseche del nuovo Milione, esito felice (era già evidente a Benedetto 1928) della manipolazione di materiali, per dir così, “casalinghi”; ma intanto potrebbe essere utile riunire le informazioni bibliografiche essenziali sui testi coinvolti.

In effetti, gli oggetti presenti sullo scrittoio dell’umanista erano (sono) parte di una costellazione testuale (la cosiddetta “tradizione manoscritta”) prodotta da una vicenda per molti versi paradossale: un testo (il “libro” di Marco e Rustichello, redatto in francese nelle prigioni genovesi all’altezza del 1298) immediatamente tradotto-riscritto in volgare e in latino, e dunque «più che perduto, dissolto dal suo stesso successo» (Bertolucci Pizzorusso 1975, p. 350) – ridotto dalla sua «energia extratestuale» a «mera, anche se capitale, virtualità di comunicazione»: ovvero, a «canovaccio di perenni traduzioni» (Contini 1976, pp. 217-218). Nei suoi tratti essenziali, questa vicenda è stata mirabilmente descritta da Benedetto (1928) – il catalogo da lui redatto tiene nel tempo, con qualche, inevitabile, correzione (vd. Burgio 2013, pp. 65-69), e qualche integrazione nel numero dei codici disponibili (l’ultimo regesto aggiornato è Dutschke 1993) –, e non serve parlarne qui. È anche poco utile, per lo scopo che ci prefiggiamo – un’edizione commentata del Milione di Ramusio e dei suoi modi di compilazione – affrontare ancora una volta nel dettaglio la “grande” questione filologica che pesa sul testo di Marco e Rustichello; ma un paio di definizioni male non faranno. Le riprendiamo da quanto è stato scritto in Burgio, Eusebi (2008, pp. 17-26); Burgio (2013, pp. 63-60); Burgio (c.s., parr. 1-2):

(1) Il testo siglato F (unico avatar dello stato linguistico originario dell’opera: il Devisement dou monde) e tutte le redazioni che si trassero a partire da copie dell’originale tra inizio del Tre e tutto il Quattrocento sono latrici di una materia informativa distribuita in modo diseguale: quattro relatori antichi, Z, V, VB e L (ovvero quelli – con gradi diversi di probabilità – disponibili sullo scrittoio di Ramusio) riferiscono informazioni assenti negli altri relatori e sicuramente autentiche (com’è confermato anche fuori dal recinto della filologia poliana: vd. per tutti Pelliot 1959-1973).

(2) Dopo Benedetto (1928) due ipotesi si fronteggiano per giustificare tale situazione: chi pensa, seguendo Benedetto, a un testo originario più ricco di quello di F (completo degli addenda attestati in Z V VB e L), progressivamente “ridottosi” nelle copie dirette e nelle traduzioni-riscritture (e definibile in filigrana nella comparazione essenzialmente di F con Z, V e R); chi ritiene invece che gli addenda siano l’esito di progressivi incrementi “d’autore” a un testo originario non molto diverso da F (tra i primi vd. Burgio, Eusebi 2008; Burgio 2013; per i secondi Ménard 2001-2009, I, pp. 12-13).

(3) Entrambe le ipotesi richiedono di tornare, come fece Benedetto, a analisi complessive della tradizione (almeno dei suoi testimoni più rilevanti): da questo punto di vista la compilazione di Ramusio fornisce un ottimo terreno di sperimentazione.

(4) Non va sottovalutato, infine, un dato di fatto: entrambe le ipotesi hanno il loro limite nelle caratteristiche della tradizione del testo; e non ci riferiamo solo al fatto che si deve fare continuamente i conti con un testo non direttamente trasmesso di copia in copia, ma indirettamente filtrato dalla volontà del redattore/traduttore (e ulteriormente modificato dai copisti di ogni singola traduzione-riscrittura): in molti casi (e importanti: si pensi a F, Z, V) la rarità delle testimonianze manoscritte fa sì che il testo coincida con la sua copia, al punto che non sia sempre possibile distinguere la parte del redattore da quella del copista.

Passiamo ora alle informazioni bibliografiche.

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La redazione F. [EB]

Il codice parigino BnF, fr. 1116 – che ci trasmette il livre qui est appellé le Devisement dou monde (questa la rubrica iniziale, f. 1r) – è il solo relatore diretto dell’opera nella veste linguistica che, con qualche distinguo, potremmo chiamare “originale” (un frammento di qualche foglio, recuperato da legature antiche, è stato pubblicato in parte da Concina 2007 – autrice della scoperta – e in parte da Ménard 2012: il cui testo coincide con la parte corrispondente nel 1116 quanto a sostanza informativa, ma presenta una veste grafica meno eccentrica di quella del relatore completo [Eusebi 2010, p. XIV]). Il codice è il solo sopravvissuto a quel naufragio editoriale che, come si diceva, fu generato dall’onda della fortuna del Milione tra i chierici e i laici dell’Europa tre-quattrocentesca: le copie dell’originale furono “bruciate” dalla loro stessa funzione di testo-modello per altrettante traduzioni-riscritture: dinamismo confermato – dopo le osservazioni di Benedetto (1928) – per la redazione toscana TA (Bertolucci Pizzorusso 1975), la francese Fr (Ménard 2001-2009), la “lombarda” VA, la veneziana VB, le latine Z e L, la costellazione “catalana” K (Meneghetti 2007; 2008).

Nel catalogo di Benedetto (1928) “F” indica sia la copia sia il testo da questa trasmesso (il cui stato è proiezione specifica dell’opera originale). Distinguiamo l’una dall’altro.

Nel cod. 1116 un copista italiano trascrisse nel 1320-1330 il testo, preceduto da un rubricario iniziale; un secondo copista recuperò dall’esemplare di copia le rubriche che scandiscono il testo in 233 unità (la prima non numerata nell’ed. Eusebi), e le aggiunse in colore negli spazi bianchi tra un capitolo e l’altro (vd. Eusebi 2010, pp. XI-XII). L’insieme presenta una veste linguistica di filo assai misto: la base francese (spesso non troppo accurata sul piano morfologico) del testo è punteggiata da toscanismi e venetismi lessicali (ma pure morfo-sintattici), e l’analisi delle grafie evidenzia tratti toscani (part. pisani) e, in misura minore, settentrionali (veneti). Il che solleva almeno due problemi (vd. l’ottima messa a punto di Andreose 2015): (1) quanto della mescidanza è degli autori, quanto del copista? (2) Quale varietà linguistica caratterizzava la scrittura (e la parlata) del copista?

Sbrighiamo subito il punto (2): la maggioranza degli studiosi (da Benedetto 1928, pp. XI, XXVII, fino a Andreose 2015, par. 3) propende per una localizzazione della copia nella Toscana occidentale; Eusebi (2010, p. XII) ha invece indicato l’area tra Venezia e Padova. La soluzione maggioritaria ha dalla sua qualche dato extralinguistico: innanzitutto il fatto che nelle prigioni di Genova (dov’erano rinchiusi dopo la sconfitta navale della Meloria, 1284) molti pisani furono utilizzati come copisti per produrre volumi in francese, perlopiù di materia arturiana e cavalleresca (vd. Cigni 2000; 2006; 2010); e, soprattutto l’indicazione di un coautore pisano, Rustichello, nel par. 4 del cap. incipitario di F: «Le quel puis, demorant en la charchre de Jene, fist retraire toutes cestes chouses a messire Rustaciaus de Pise, que en celle meissme chartre estoit, au tens qu’il avoit .MCCXCVIII. anç que Jeçucrit nesqui» (il nome è ignoto a Ramusio – che nel Prohemio primo parla solo di un «Genovese» –, ma non a tutte le sue possibili fonti: solo la redazione V, che in 1 3 ricorda, come F, che Marco «siando destegnudo in charzere de Zenovessi, tute ’ste chosse feze schriver per misier Reustregielo zitadin de Pixa, lo qual era nela dita prixone chon el dito misie’ Marcho Polo» – ma Z toledano ha soppresso i capitoli del prolegue di F). Rustichello è il nome a cui si attribuisce il Roman de Meliadus, una compilazione in prosa di materia arturiana, redatta in francese negli anni Settanta, che godette di grandissima fortuna, visto il notevole numero di codici che ne resta (vd. l’ed. Cigni 1994; e Cigni 2008); e si può facilmente attribuirgli l’iniziativa di scrivere il libro di Marco in francese, lingua egemone non solo in Occidente, ma pure nel Levante in cui dominava la potenza commerciale di Venezia. Quali siano stati i termini della collaborazione tra i due è difficile dire: per limitarci a quanto è ragionevolmente ricostruibile, si può ipotizzare che essi lavorassero a partire da materiali scritti (in veneziano?) di Marco (che peraltro doveva possedere una competenza orale del francese parlato in Levante), appunti che furono rielaborati in progress, anche oralmente, e con un contributo sicuro di Rustichello almeno nelle sezioni narrative dell’opera (Andreose 2015, par. 4). In ogni caso, a questa collaborazione andrà attribuita la peculiare fisionomia della lingua (al netto, naturalmente non proprio quantificabile, del “apporto” dei copisti italiani nell’“annacquamento” del francese originario).

L’etichetta, di sapore enciclopedico, Devisement dou monde (“Descrizione del mondo”) racchiude una materia assai varia: geografica, innanzitutto (con molta attenzione ai dati economici ed etnografici), ma pure storica e narrativa. Il continuum del testo conosce una micro-partizione in capitoli (evidenziata dalle rubriche) e una complessiva macro-partizione. Questa è scandita dal lessico scelto da Marco e Rustichello: dopo un incipit rivolto al pubblico prescelto (in cui si spiegano argomento, autori e ragioni dell’opera), segue un prolegue – capp. I-XVIII / R I 1 – dedicato al resoconto dei due viaggi in Asia dei Polo (quello di Matteo e Niccolò, 1265-1269; quello dei due insieme a Marco, 1271 ca.-1295) – e quindi il livre vero e proprio (prolegue e livre sono lemmi di F XVIII 19: «Or puis que je voç ai contéç tot le fa‹i›t dou prolegue, ensi com vos avés oï, adonc comencerai le livre»); alla bipartizione formale si sovrappone una tripartizione semantica (poi evidenziata nella redazione P e accolta da Ramusio): capp. XIX-LXXIV (vicino Oriente e Asia centrale); capp. LXXV-CLVI («tous les fais dou Grant Kaan qe orendroit rengne» [LXXV 1]: descrizione dell’impero di Qubilai) ; capp. CLVII-CCXXXII (il «livre de Indie»). La strutturazione in capitoli risponde a ragioni semantiche (che per le parti corografiche rispondono di norma a un principio di biunivocità “scheda / luogo”), ma è anche linguisticamente evidenziata da formule specifiche di apertura/chiusura; prendiamo uno dei casi conservato pure da Ramusio (R I 4), il capitolo sull’Armenia (F XXI): all’inizio la struttura “toponimo + pred. nom.” (par. 2 «La Grant Armenie est une grant provence»: con anticipazione nel par. precedente F XX 8 «Or laison de cest provençe et parleron de le Grant Armenie»), alla conclusione la transizione “da toponimo X a toponimo Y”, con il ricorso a un verbo di movimento e la dichiarazione della materia successiva (par. 9 «Or laison de la Grant Armenie, et voç conteron de la provence de Jorjens»). Come ha indicato Bertolucci Pizzorusso (1977), studiando in maniera definitva la fenomenologia dell’istanza narrativa nel Milione, la soluzione non è puro artificio formale (sulla base della metafora dello “spostamento”), ma è nutrita di una profonda verità biocentrica, che si riconosce perfettamente in F XLVIII 17, in fine del capitolo sul Kesimur: «Or voç lason de ceste provences et de cest parties, e ne iron avant, por ce qe, se nos alaisomes avant, nos entreronmes en Yndie, et je ne i voil entrer ore a cestui point, por ce que, au retorner de nostre voie, vos conteron toutes les couses d’Ynde por ordre; et por ce retorneron a nostres provence ver Baldasciam, por ce que d’autre partie ne poron aler» (vd. R I 27 11). Laser, aler, entrer, au retorner de nostre voie: il testo procede seguendo l’itinerario fisicamente percorso dai Polo –, da Costantinopoli alla corte di Qubilai, da lì per tutta la Cina, e quindi – via mare – dalla Cina fino al golfo Persico, e sul disegno della mappa dell’Altrove asiatico si proietta la diretta esperienza di un itinerario. Il trattato geografico ha del resto bisogno di questa curvatura biocentrica: proprio perché Marco è la fonte stessa della descrizione di un Altrove mai visto finora, gli è necessario sostenere la verità della descrizione con il racconto della sua esperienza nel prolegue (così come aveva fatto il francescano Giovanni di Pian di Carpine, che nella seconda edizione della sua Storia dei Mongoli, frutto del viaggio tra i Mongoli come inviato di Innocenzo IV, 1245-1247, aggiunse agli otto capitoli tematici – scritti nella forma “oggettiva” del presente e della 3a p. sg. – un ultimo capitolo, in 1a p. pl. e al passato, per il resoconto del viaggio, «[…] ne aliqua dubitatio quin fuerimus ad Tartaros apud aliquos oriatur […]» [IX 49]: vd. Burgio 2003). E d’altra parte, la dialettica tra “trattato” e “verità biocentrica” si mantiene in tensione fino alla fine dell’opera: come si sa, i Polo chiusero il loro viaggio asiatico sbarcando nel 1295 a Hormuz (vd. Bertolucci Pizzorusso 1975, carta f.t.), e dunque la descrizione di tutti i luoghi a O di quel porto (dal Magastar alla Russia) è di seconda mano, e serve a “chiudere” un quadro geografico percepito come incompiuto altrimenti. Pure la sequenza dei capitoli conclusivi – F CCXVIII «Ci devise de la provence de Oscurité», F CCXVIII «Ci devise de la grant provence de Rosie et de les jens», F CCXIX «Ci devise de la bouche dou mer Greignor», e quindi F CXXI-CCXXXII, dedicati ai conflitti tra Tartari di Levante e Tartari di Ponente, chiusi in F CCXXXII 4 con la frase «En telz mainere com voç avés oï vinqui la bataille Nogai. E si voç di qe il en mu‹ru›rent bien .LXm. homes. Mes le roi Toctai escampe, e les .II. filz Tolobuga schanpoit ausint» – lascia perplessi per il suo carattere “non finito”. (La sequenza è assente in Ramusio, vd. sotto a proposito della redazione Z).

L’edizione adottata è quella di Eusebi (2010), integrata con le correzioni che saranno registrate in un’apposita appendice di Burgio, Eusebi (c.s.).

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La redazione Z. [EB]

La scoperta nel cod. milanese Bibl. Ambrosiana, in Milano (cod. Y 160 sup.: una copia preparata a Padova nel 1795 per l’abate Giuseppe Toaldo) di una redazione latina inedita del Milione fu per Benedetto (1928) la pietra angolare dell’ipotesi di una «fase anteriore a F» del testo; e il ritrovamento nel 1932 presso l’Archivo Capitulár di Toledo del modello della copia di Toaldo (cod. Zelada 49.20, il cui testo fu èdito in mediocre trascrizione diplomatica in Moule, Pelliot, 1938, II) ebbe una certa risonanza internazionale, ma non modificò la qualità delle conclusioni a cui era giunto Benedetto (essendo l’ambrosiana una copia assai fedele del codice toledano: vd. Barbieri 1998, pp. 569-571). Ancora una volta, una sola sigla designa il codice relatore e il testo relato – ma come si vedrà, la redazione Z conosce una tradizione più folta, sebbene tutta “virtuale”.

Il codice toledano (appartenuto da ultimo al cardinale Francisco Xavier de Zelada, 1717-1801) fu redatto probabilmente a Venezia, in una «scrittura corsiva su base mercantesca» (Barbieri 1998, p. 578), tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XV secolo (così si ricava dall’analisi della filigrana delle sue carte: vd. Mascherpa 2007-2008, pp. 13-14); la medesima mano, in tempi diversi, scrisse sul margine delle pagine circa trecento annotazioni relative ad argomenti religiosi ed “etnografici” (vd. la loro edizione in Barbieri 1998, pp. 594-607). Questi dettagli suggeriscono che il codice sia stato prodotto da un “copista per passione”, un chierico o forse un umanista (Mascherpa 2007-2008, pp. 19-22). L’analisi stratigrafica condotta da Mascherpa (2007-2008), pp. 37-60 sul latino del codice (finalizzata a rintracciare i tratti volgari sotto la sua patina) ne riconduce la provenienza all’Italia settentrionale (Veneto di terraferma).

La stessa analisi (in parte anticipata in Burgio, Mascherpa 2007, pp. 123-132) colloca in Venezia (e prima del 1325: vd. sotto) la stesura della versione latina poi copiata nel toledano: una versione che doveva essere assai aderente al modello, un relatore linguisticamente affine a F: i passi in cui lo Z toledano è confrontabile al testo del fr. 1116 mostrano un redattore attento alla fedeltà letterale, fino al punto di riprodurre in latino strutture sintattiche e calchi lessicali tipicamente volgari (Mascherpa 2007-2008, pp. 24-35 conferma le osservazioni di Benedetto 1928, pp. CLXIV-CLXV).

Quanto al testo, è necessario distinguere tra Z toledano e redazione Z. Come registrava Benedetto (1928), p. CLXIV, il testo del primo, commisurato su F, presenta una sorta di “doppia personalità”: grosso modo dal cap. F CXLVI / R II 63 / Z 80 la versione ripete (con la fedeltà di cui s’è detto) i contenuti propri del fr. 1116; prima di quel limite, si registrano gli effetti di un corposo piano di abbreviazioni: mancano all’appello i capp. F I-XVIII (tutto il prolegue); LXIII-LXX (la monografia sui costumi tartari); LXXV-CIII (la monografia su Qubilai); CVII-CVIII (conflitto tra il re Dor e il Prete Gianni); CXX-CXXIII (conquista di Mien); CXXXVIII (conquista del Mangi). Nella prima parte dunque i tagli paiono colpire le sezioni “storiografiche” dell’opera, con una sorta di idiosincrasia che si riconosce anche negli accorparmenti di capitoli segnalati da Mascherpa (2007-2008), pp. 79-80 (tra gli altri: la riduzione al solo cap. 7 del miracolo del ciabattino di Baghdad: F XXV-XXVIII / R I 8 11-29; la riduzione al cap. 17 della vicenda degli Assassini: F XL-XLII / R I 21; etc.), e in altre abbreviazioni di minor conto (Mascherpa 2007-2008, p. 75). Pare assai difficile trovare – in assenza di indizi interni o esterni – una spiegazione per tale discrasia di atteggiamenti; ma ha ragione Mascherpa (2007-2008), pp. 76 sgg. ad attribuire al copista del toledano la responsabilità dei tagli alla lezione del suo modello (ragionevolmente più completo della copia). Sono a favore di quest’ipotesi: (1) la presenza della nota «cix» all’altezza di Z 53 (f. 23v: pare un’annotazione topografica, relativa al capitolo dedicato alla provincia di Sindifu, F CXIII / R II 36): (2) il fatto che il domenicano Pietro Calò di Chioggia, utilizzando per il suo leggendario (1332-1340) il capitolo di Z relativo a san Tommaso (Z 109 / F CLXXV / R III 20 60 e sgg.), lo indichi come «capitul[um] CLXXV» (vd. Devos 1948; Barbieri 1998, pp. 574-575; Mascherpa 2008).

Questi fatti ci conducono alla questione dei testimoni “virtuali” di Z: un esemplare di questa redazione coincide sicuramente con il «codice Ghisi» di cui s’è detto in par. 1 (lo “Z1” di Benedetto 1928), e a cui si farà spesso riferimento nel commento ai singoli capitoli de I Viaggi; da un codice sicuramente più completo del toledano il camaldolese Fra Mauro attinse onomastica e descrizioni per completare la Mappamundi allestita prima del 1453, e oggi presso la Biblioteca nazionale Marciana (vd. Burgio 2009, pp. 92-94; 2014); un codice di Z fu tra le mani del domenicano Filippino da Ferrara, che tra il 1325 e il 1347 (Dutschke 1993, p. 1229) lo utilizzò per ricavarne brevi racconti da inserire nel suo “manuale di conversazione”, il Liber de introductione loquendi (Gobbato c.s.). È possibile, ovviamente, che la pluralità di questi fantasmi sia da ricondurre a un numero più ristretto di oggetti (p.es.: forse Fra Mauro usava lo stesso codice a lungo compulsato da Ramusio…), ma in assenza di ulteriori evidenze positive si può solo sottolineare come essi si dispongano nello spazio geografico (l’area tra Venezia e Bologna) in cui si collocano praticamente tutte le redazioni potenzialmente disponibili a Ramusio.

Che fisionomia aveva lo stato testuale che per comodità potremmo porre sotto l’etichetta “Z1”? Per l’operazione disponiamo di tre elementi (Mascherpa 2007-2008, pp. 93-94). (1) Innanzitutto il testo di Z toledano: il quale non solo garantisce che il modello francoven. a disposizione del traduttore latino era latore in non pochi casi di un testo migliore di quello di F, ma è pur portatore di più di duecento tessere sicuramente autentiche (gli addenda di cui parla Benedetto 1928 – e vd. Barbieri 1998, pp. 575-576; che siano “originarii” o frutto di una “seconda edizione” del Milione poco importa qui: ma si può notare che la dimostrazione di Peretti 1930, p. 233 sulla vis abbreviatoria di F non è stata mai falsificata…); (2) le testimonianze indirette (Calò etc.); (3) nei casi in cui il toledano tace o abbrevia, la collazione fra R e le sue possibili fonti: per cui si potrà ricostruire Z1 (come s’è detto fedele traduttore del modello francoven.) dall’accordo tra R e F, oppure ipotizzare sue lacune se Ramusio ricorre visibilmente ad altri modelli. Detto tutto questo, per restare sul piano macrostrutturale (e lasciando al commento l’analisi dei singoli casi di addenda), si possono avanzare due osservazioni: (1) Z1 presentava sicuramente tre capitoli in più del testo vulgato da F: l’attuale cap. 33 sullo Iuguristam (tra F LVIII / R I 37 e F LIX / R om.), e i capp. 44-45, sulle pratiche astrologiche e le credenze religiose nel Catai (tra F C e F CIV: accolti da Ramusio in R II 25 e R II 26). (2) Lo scarto strutturale più macroscopico fra Z e F riguarda l’ordine dei capitoli conclusivi dell’opera (sui quale R tace, perché sul modello di P, presenta solo i capitoli relativi alla «regione detta delle Tenebre» R III 45 e alla «provincia di Rossia» R III 46, imbastiti su una lezione – attraverso P – più vicina a F che a Z). In F, al cap. CCXVIII «Ci devise de la provence de Oscurité» seguono due schede corografiche molto brevi (F CCXVIII «Ci devise de la grant provence de Rosie et de les jens»; F CCXIX «Ci devise de la bouche dou mer Greignor»), e quindi la lunga serie di capitoli (F CXXI-CCXXXII), dedicati ai conflitti tra Tartari di Levante e Tartari di Ponente; Z invece sposta i capitoli sulla Russia (165: molto più ricco in informazioni di F) e sull’ingresso al mar Maius (166) alla fine, racchiudendo tutti i capitoli storiografici (152-164) tra la scheda «de provincia Obscuritatis» (151) e l’ampio referto russo. Si tratta di un ordine isolato nella tradizione poliana (che si allinea di norma a F: peraltro in questa zona più di un relatore denuncia lacune di varie dimensioni), ma a Burgio, Eusebi (2008), pp. 34-39 è parso preferibile a quello vulgato: certo non si può escludere che esso sia invenzione di Z1 (meno probabilmente del toledano).

Il testo qui usato è quello fissato da Barbieri (1998).

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La redazione VA. [SS]

A lungo ritenuta la redazione veneta «per eccellenza» (Benedetto 1928, p. C), VA occupa un ruolo fondamentale nella storia della diffusione e della fortuna del testo poliano, malgrado la sua modesta rilevanza ai fini della ricostruzione del testo; essa vanta il primato del numero di traduzioni in altre lingue: fu precocemente volta in latino (P e LB), in toscano (TB, da cui vennero tratte la più antica versione tedesca, nella seconda metà del Quattrocento, e la latina LA), in castigliano (la stampa di Rodrigo de Santaella nel 1503, appartenente alla costellazione VL), a conferma che «raggruppamento filologico e raggruppamento linguistico non coincidono necessariamente» (Renzi 1999, p. 56).

La fisionomia originaria di VA rimane in parte inattingibile: accanto a un testimone più autorevole ma frammentario, primo-trecentesco (Roma, Bibl. Casanat., 3999, ed. Barbieri 2001), sopravvivono oggi quattro esemplari, più tardi e degradati, che rispecchiano la forma con cui la redazione circolava nel Quattrocento; alcune lezioni di P dimostrano tuttavia senz’ombra di dubbio che il modello usato da Pipino doveva essere migliore di quelli conservati. VA2 (Firenze, Bibl. Ricc., 1924) e il sottogruppo formato da VA3 (Padova, Bibl. Civica, CM 211, unico testimone completo, adottato come testo-base nell’edizione Barbieri, Andreose 1999), VA4 (Firenze, Coll. Venturi Ginori Lisci, descritto da Benedetto 1928, p. CIII e oggi irreperibile) e VA5 (Bern, Bürgerbibl., 557) derivano da un antigrafo comune, y; da un collaterale di VA2 discendono TB (ed. Amatucci 1984, di cui è in preparazione una nuova ed. a sua cura) e, attraverso un interposito (latino?) z, il sottogruppo VL (cui appartengono anche la prima stampa veneziana, nota come «stampa Sessa», e la traduzione castigliana di Santaella; vd. Valentinetti Mendi 1992 e Gobbato 2009).

Per quanto riguarda la facies linguistica, l’indagine di Andreose (2002) ha incrinato l’idée reçue di una localizzazione veneta, impostasi con Pelaez (1906) e ripresa inerzialmente da Benedetto (1928), proponendo una definizione meno restrittiva e più prudente di «Milione veneto-emiliano» o «lombardico». VA1 presenta tratti linguistici emiliani (bolognesi?), ma gli altri testimoni sono circoscrivibili con più difficoltà; VA2 denuncia alcuni tratti lombardo-orientali (tra Bergamo, Brescia e Cremona, vd. Andreose 2002, pp. 666-667), mentre VA3 e VA5 vanno rispettivamente ricondotti all’area veneziana (il primo venne copiato nel 1445 dal nobile Nicolò Vitturi) e veronese.

Il trattamento del modello (ridotto a 155 unità, a fronte delle 233 di F) denota una predilezione per le sezioni corografiche rispetto a quelle storiografiche, sulle quali il redattore interviene con semplificazioni e con qualche soppressione: il testo si conclude con il capitolo sulla Russia («De Rosia, che è la dredana provinzia de questo libro»); sono omessi i capitoli corrispondenti a F CXXXV-CXXXVI (Lingiu e Pingiu, assenti anche, in R II 53, fedele a P); CLXXVII-CLXXVIII (Seilan e Cail = R III 23 e R III 24); CXCV-CCXV (dalla scheda su Dulfar e Aden, alle guerre di successione nell’ilkhanato di Persia = R III 42 e R III 44, poi lacunoso), CCXIX-CCXXXII (vicende dei Tartari di Ponente, omesse anche da R).

A livello formale VA, come altre redazioni, registra frequenti interventi di sfrondamento del formulario rustichelliano: oltre a colpire le formule allocutive o le transizioni di raccordo tra un capitolo e il successivo, vengono spesso cancellate «le tracce del processo compositivo (esitazioni, dimenticanze, ripensamenti)» (Barbieri, Andreose 1999, p. 49) in ossequio a un principio di razionalizzazione dell’istanza “biocentrica” che caratterizza il testo all’atto dell’enunciazione. Un tratto tipico è inoltre rappresentato dalla presenza di amplificazioni, soprattutto glosse a carattere didascalico, che hanno come obiettivo una chiarificazione del senso dei passi (Barbieri, Andreose 1999, p. 51). VA spicca inoltre per la presenza di interventi censorî che smussano il contenuto scabroso di alcuni passi, o eliminano i contenuti più “eterodossi” (vd. il capitolo su Sogomonborchan).

Pare assodato che il redattore avesse come modello base per il suo lavoro una copia francoven. del testo: lo dimostrano l’aderenza delle strutture sintattiche, la presenza di «calchi lessicali», di «morfemi e termini crudi», di numerosi «francesismi d’inerzia» (Barbieri, Andreose 1999, pp. 47-48), tutti elementi che collocano VA tra gli esempi di traduzione «orizzontale o infralinguistica» (ibid.), senza peraltro che questo garantisca l’assenza di trivializzazioni o errori.

Il testo è quello dell’edizione critica di Barbieri, Andreose (1999).

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La redazione P. [SS]

La versione del domenicano Pipino da Bologna (su cui vd. Dutschke 1993), nota come Liber domini Marchi Pauli de Veneciis de conditionibus et consuetudinibus orientalium regionum, fu redatta verosimilmente entro il primo quarto del Trecento su un perduto esemplare VA, dalla lezione migliore rispetto ai testimoni oggi noti (Benedetto 1928, pp. CXII-CXIII). Essa è stata la versione più diffusa in Occidente, come testimonia l’imponente numero di 65 relatori conservati. P fu anche la prima redazione a raggiungere il traguardo della stampa (P Antw: Anversa, per i tipi di Gerard Leeu, 1483-1484): ne agevolarono la circolazione la «mole ridotta, l’universalità della veste latina, l’adozione in certo modo ufficiale da parte dell’autorità religiosa. Il Marco Polo di fra Pipino fu quello per eccellenza del clero, degli studiosi e dei dotti» (Benedetto 1928, p. CLVII), ed è per questo, verosimilmente, che Ramusio gli accordò un ruolo importante nella costituzione del testo poliano.

P condivide con il suo modello VA le medesime lacune rispetto a F: mancano i capitoli corrispondenti a F CII-CIII (le elemosine del Gran Khan = R II 24 e R II 25); CXXXV-CXXXVI e parte di CXXXVII (Lingiu, Pingiu, Cingiu; la lacuna è pure in R); CLXXVII-CLXXVIII (Seilan e Cail = R III 23, R III 24); CXCV (Dulfar = R III 42); CXCVI-CCXV Calatu, Curmos, la Gran Turchia e le imprese di Caidu e dei Tartari di Levante, lacuna condivisa da R); CCXIX-CCXXXII (Tartari di Ponente, omessa anche da R). Rispetto a VA Pipino sopprime inoltre il racconto sui Re Magi, che dovette sembrargli poco ortodosso (F XXX-XXXI, VA XIX, eliminato anche da R: vd. Scorza Barcellona 2008, p. 309).

Malgrado la presenza di tratti di continuità con il suo antigrafo, P mostra contemporaneamente i segni di una robusta riorganizzazione formale e strutturale. Tra le innovazioni si registrano: (a) l’introduzione di un prologo: Pipino sostituisce infatti al capitolo proemiale di F un Prologo (accolto in R), in cui spiega l’occasione della traduzione e la scelta del latino, ribadendo inoltre la veridicità delle informazioni poliane; naturalmente l’inserzione di un nuovo proemio non è (almeno nell’esito) innocente: essa comporta, di fatto, una ridefinizione del pubblico rispetto a F, che identificava nei laici i destinatari virtuali dell’opera (vd. Bertolucci Pizzorusso 1977, pp. 13-14; Burgio 2005, pp. 31-33). Sotto questo profilo P offre un buon esempio di quel processo di adattamento e di “ricalibratura” di intenti che nel tempo ha permesso «la fruibilità del libro, alius et idem, in diversi ambienti e contesti» (Barbieri 2004, p. 136); (b) la divisione in tre libri (poi recepita da Ramusio), di 67, 70 e 50 capitoli ciascuno (sfruttando la tripartizione semantica già virtualmente presente nell’opera, vd. supra); (c) la ridistribuzione della materia secondo direttrici di senso apparentemente opposto, volte a potenziarne la coerenza espositiva: da una parte la scomposizione dei singoli capitoli in più unità, dall’altra una tendenza all’accorpamento o allo spostamento di tessere testuali. Per quanto riguarda la prima modalità, nel primo libro, ad esempio, la descrizione della città di Scassem occupa uno spazio a sé (vd. P I 33; così fa pure R I 24) mentre in VA è inclusa in XXXII (= F XLV), oppure, ed è il caso più consistente, a VA LIII-LIV (= F LXVIII) e LV (= F LXIX) – successione e sepoltura dei Khan, usi e costumi dei Tartari – corrisponde la segmentazione in otto unità (P I 54-61 = in R, i capp. da R I 44 a R I 48) e il riordino delle informazioni in una serie assai più coesa di capitoli minori. Questa modalità di intervento si ripete nel secondo e nel terzo libro (vd. Simion 2011, pp. XXI-XXII), accanto alla procedura inversa (vd. ad es. P II 14, che raggruppa in unità le informazioni sulle feste per il compleanno del Gran Khan e sullo sfoggio di vesti e ornamenti da parte della corte) bipartite in VA LXIX-LXX (= F LXXXVI-LXXXVII; come P si comporta R II 11). Infine, si assiste talvolta alla modifica della sequenza di capitoli o di segmenti singoli, spostati dalla sede primitiva per conferire maggior ordine alla narrazione. Ad es. in P III 26-27 (= VA CXXXVII e CXXXIX; F CLXXIII e CLXXV; vd. nota a R III 20) la contiguità geografica degli eventi descritti (il primo capitolo tratta del Mabar, il secondo della predicazione indiana di Tommaso) trascina con sé una modifica della dispositio.

La mancanza di un’edizione di P basata sulla recensio plenaria dei testimoni è forse la lacuna maggiore negli studi poliani.

Il testo che qui si pubblica si fonda sull’edizione interpretativa del ms. 983 della Biblioteca Riccardiana di Firenze, allestita da Simion per questo progetto. Nei suoi punti incerti la lezione del codice è stata confrontata con quella del modenese ms. lat. 131 (α S 6 14) della Biblioteca Estense e con l’edizione Prášek (1902). Del miracolo della montagna che cammina viene presentata, oltre alla versione del cod. riccardiano, un testo più lungo, secondo la lezione del ms. Conv. Soppr. C.7.1170 della Biblioteca Nazionale di Firenze (vd. infra).

Il codice 983 è un volume cartaceo, databile alla metà del Quattrocento sulla base delle filigrane composto da III (carta moderna) + III (carta antica) + 91 + III (carta moderna) ff., numerati modernamente (il f. 82 reca traccia di una numerazione più antica, in matita: «n. 17»), di mm 200 × 140, organizzati in 9 fascicoli (con richiami riempiti in giallo nel margine centrale inferiore dei ff. 10 v, 20v, 30v, 40v, 50v, 60v, 70v, 80v). Lo specchio (mm 120 × 87 fino al f. 10v, con scrittura a due colonne di mm 39 su 28 rr.; dal f. 11r mm 125 × 89, con scrittura a due colonne di mm 40 su 29 rr.), squadrato e rigato a piombo, è riempito del solo testo di P da una grafia «di tipo umanistico, con elementi ancora goticheggianti» (Cavallo 1992, p. 478), di una sola mano. Il quarto fascicolo ha subito uno spostamento e la successione va così ricomposta nella lettura: 32, 35, 33, 34, 37, 38, 36, 39. Non ci sono glosse né marginalia, se si eccettua un’integrazione al f. 19r (un segno di richiamo in inchiostro rosso con aggiunta relativa nel margine sinistro). L’apparato decorativo è minimale, ma accurato rispetto alla media dei testimoni di P: si trovano lettere capitali ornate prima del prologo e all’inizio dei tre libri in cui è ripartita la redazione: al f. 1r (‹L›: 7 UR), in inchiostro blu con intrecci geometrici verdi e rossi; un motivo a foglie decora il margine sinistro (vd. Dutschke 1993, pp. 573-575); al f. 3r (‹T›: 4 UR) in inchiostro blu; al f. 33 r (‹I›: 11 UR) in inchiostro blu; al f. 70 r (‹P›: 4 UR). Le iniziali di capitolo sono alternativamente in blu e rosso, con decori essenziali, e misurano ca 2 UR. Gli elenchi liminari di rubriche sono in inchiostro nero, con riempimenti in giallo; le rubriche premesse a ciascun capitolo in inchiostro rosso. Segni paragrafali all’interno del testo presentano riempimenti in giallo. Non ci sono note di possesso. Come si legge nel f. di guardia che segue f. 91, il codice risulta dalla riunione, nel 1965, dei ff. 1-81 con un fascicolo erroneamente finito in un altro codice miscellaneo (il Ricc. 2992); il fatto era già noto a Benedetto (1928, p. CXXXV). Legatura moderna in assi di legno con dorso ricoperto di cuoio. Provenienza: Fondo Riccardi.

Nella trascrizione del Ricc. 983 ci si è attenuti a criteri conservativi, nell’intento di fornire una rappresentazione quanto più fedele possibile della realtà del manoscritto. Sono state introdotte: separazione delle parole, punteggiatura, maiuscole, minuscole secondo l’uso moderno. Sono state distinte graficamente u e v. Le integrazioni sono racchiuse tra parentesi uncinate (‹›). Le lacune sono segnalate tra ‹…›; non si danno casi di passi bisognosi di cruces. Le abbreviazioni sono sciolte direttamente nel testo. Non riportati presentati i rubricari liminari dei tre libri. Il testo è stato ripartito in pericopi non coincidenti con il punto fermo, ma con il valore semantico del passo.

Come segnalato da Dutschke (1993), pp. 1134 e segg., del miracolo della montagna che cammina esiste una versione più lunga, conservata da un piccolo gruppo di codici: Firenze, BnC, Conv. Soppr. C.7.1170; Göttingen, Niedersächsische Staats-und Universitätsbibliothek, 4° Cod. Ms. histor. 61; Kórnik, Kórnicka Polskiej Akademii Nauk, 131; Wroklaw, Biblioteka Uniwersytecka, IV Fol. 103. Dutschke offre una trascrizione dell’episodio dal relatore fiorentino, il solo a essere trecentesco, italiano, e di produzione quasi certamente domenicana, fornendo anche, in apparato, le varianti degli altri manoscritti. Il testo che qui si pubblica è quello di Dutschke (1993), verificato sul manoscritto.

De translatione montis.

[1] Casus enim talis fuit. [2] In Baldach fuit quidam calipfus qui habebat ‹in› odio omnes christianos ibi habitantes. [3] Nam inter Saracenos multi habitant christiani qui Saraceni obediunt excepta fide. Inter karium Babillonem (?) viginti due christianorum ecclesie sunt, ubi christiani colunt fidem Christi scientibus Ssaracenis, et Saraceni colunt Machometum ad moschedas eorum. [4] Iste calipfus cogitans die et nocte demolire omnes christianos de Baldach et de illis partibus, aut eos facere renegare fidem Christi, frequenter habebat conscilium cum baronibus suis super hoc. Ipsi ad hoc erant multi soliciti ad inveniendam causam ut possent ipsos christianos destruere et occidere aut renegarent. [5] Unus vero ex sapientibus consciliariis dicti calipfi dixit: «Ego inveni unam viam quam queritis contra christianos. Evangelium christianorum dicit: “Quisquis christianus habebit tantam fidem in Christo sicut est unum granum sinapis et ipse dicet uni monti ‘tolle te de hoc loco et vade ad alium locum’, quod mons ille obediet christiano”, unde facite congregari in unum locum omnes istos christianos istarum partium, et dicatis eis quod certo termino faciant moveri unum ex montibus nostris. Ipsi hoc facere non poterunt et tunc vos dicetis eis quod non habent tantam fidem sicut est unum granum sinapis et quod suum evangelium non est bonum, unde respondeant vobis aut velint esse saraceni, aut mori omnes tam parvi quam mangni». [6] Quando calipfus hoc conscilium intellexit, ipsum totaliter acceptavit gaudenter; misit pro christianis illarum partium, qui multi erant, et fecit eis legi avangelium [sic: evangelium] suum predictum ac eos interrogavit si hoc erat verum. Ipsi responderunt quod sic. [7] Calipfus dixit eis precipiendo, aut facerent infra decem dies quod dictus mons tolleretur de loco suo, aut renegarent, aut mortem expectarent. [8] Tunc christiani hoc audito valde tribulati fuerunt, set iactaverunt cogitatum eorum in domino nostro Ihesu Christo cum ‹…› Salvatore, qui sperantes in se non deserit, qui deberet eis succurrere in tanto periculo. Et tunc episcopi et patres sancti illius contrate ordinaverunt domino supplicare devote orando et ieiunando, ut eos a tanto periculo adiuvaret. [9] Finito autem tempore octo dierum, unus angelus apparuit uni sancto episcopo in visione, et dixit ei ex parte Dei ut dicerent uni calzolario monoculo qui oraret pro christianis, et mons iste tolleretur ad mandatum dicti calipfi, et dixit ei nomen et domum ubi habitabat calzolarius; hanc visionem habuit pluries dictus episcopus. Et tunc termino calipfi propinquante, misit pro isto calzolario, dicens ei visiones predictas. [10] Rogavit ut hanc orationem faceret pro christianis liberandis domino Ihesu Christo. [11] Calzolarius vero monoculus excusando se dicebat: «Ego peccator sum, et non sum dignus hac gratia». Ipse se excusabat propter humilitatem suam. Nam ipse erat homo sancte vite, castus et honestus valde, omni die audiebat missam et elemosinas errogabat iuxta posse suum. [12] Ipsemet erruerat sibi oculum capitis sui dextrum hac de causa. Nam pluries audiverat dici legi et predicari quod evangelium Christi dicebat: «Si oculus tuus scandalizat te, errue eum et proiece abs te». Ipse erat bone simplicitatis homo, et credebat quod ista verba sic deberent intellegi et fieri ‹sicut› scripta sunt. [13] Contingit enim unus talis casus. [14] Scriptas [sic]: una pulcra iuvenis venit ad ipsum dicens ei: «Domine calzolarie, facite michi duos calzarios». Respondit calzolarius: «Ostende michi pedem tuum». Ipsa iuvenis excesit modum et ostendit sibi nedum pedem set crux et ex ista ostensione ex demonis instigacione calzolarius magnam temptacionem et delectationem habuit in corpore suo. Ipse vero statim lecentiavit ipsam iuvenem et incepit redire ad cor suum, contristari et dolore de temptacione ista, et recordatus fuit dicti evangeli, et statim erruit sibi oculum ipsemet propter contricionem illius talis temptacionis. [15] Et ideo christiani confidentes de eius orationibus rogaverunt eum, ut rogaret ‹D›eum ut eos a dicto periculo liberaret, et ipse promisit hanc orationem facere. [16] Adveniente autem die termini prefixi a dicto calipfo omnes christiani surexerunt temptestive, iverunt ad ecclesias, fecerunt dici missas et oraciones. [17] Postea congregaverunt se omnes masculi et femine parvi et magni, et fecerunt portari ante se crucem, et iverunt ad pedem dicti montis. Ipsi multi erant. [18] Et statim calipfus venit cum maxima multitudine Saracenorum armatorum et paratorum ad occidendos christianos predictos, non credentes ipsos posse facere quod dictus mons tolleretur iuxta mandatum calipfi. [19] Tunc autem idem calzolarius Dei amicus genuflexit devotissime ante crucem, levans manus ad celum, rogavit dominus nostrum Ihesum Christum ut mandaret dictum montem tolli de illo loco iuxta voluntatem calipfi. [20] Et statim facta ipsa oratione dictus mons ellevavit se sicut avis, et ivit ad locum petitum per calipfum. [21] Quando Saraceni viderunt hoc miraculum, multum admirati sunt et calipfus cum eis, et tunc ob hanc causam calipfus cum multis Saracenis fecerunt se christianos, et vitam christianam servaverunt, et quando ipse calipfus obiit non fuit sepultus ut Saracenus, set ut christianus, et quia invenerunt morto eidem calipfo unam crucem ad collum.

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La redazione VB. [SS]

Vera e propria «riscrittura» del Milione (Renzi 1999, p. 16), la redazione veneziana Meser Marco Polo, La so lezenda è tràdita da due testimoni quattrocenteschi (Donà delle Rose 224 del Civico Mus. Correr di Venezia, base dell’edizione Gennari 2009, e il londinese BL, Sloane 251 della British Library) e da un frammento cinquecentesco tratto da un esemplare di proprietà di Paolo Ramusio, figlio di Giovanni Battista (Città del Vaticano, BAV, Barberiniano lat. 5361). È plausibile, quindi, che il codice VB utilizzato da Ramusio gli appartenesse, e si giustificherebbero così, nel quadro di un lavoro fatto “in casa”, con materiali facilmente compulsabili, i numerosi innesti da questa inaffidabile redazione, vivacemente stigmatizzati da Benedetto (1928, pp. CLXXXIV-CLXXXVII; e vd. Andreose 2011, pp. XXXIII-XXXV).

A livello strutturale, il testo di VB conta 173 capitoli non rubricati; il capitolo proemiale è conservato, sebbene depurato dal nome di Rustichello da Pisa. Il redattore ha provveduto a eliminare alcune unità testuali, tanto all’interno delle serie corografiche, quanto di quelle storiografico-narrative. Mancano, rispetto a F, i capitoli XLIII (Sapurgan = R I 22), LXXV e LXXXI-XCIII (la “monografia” dedicata a Qubilai e alla sua corte = R II 1, e i capp. da R II 4 a R II 16), CIX (Caracoron = R II 32 e R II 33), CXXX (Cacianfu = R II 49), CLXII (Giava Maggiore = R III 7), e risulta abbreviata e lacunosa la sezione finale, dedicata alle guerre tra Tartari di Levante e Tartari di Ponente: sono soppressi i capp. CXCIX-CCXV (così in R); CCXVII-CCXXVI (per la gran parte mancanti in R, che si arresta alla descrizione della Russia, R III 46 = F CCXVIII), CCXXIX (assente in R), mentre in un solo capitolo, il 173, si condensa la narrazione che nel francoven. si distende nei capp. CCXXVII-CCXXVIII e CCXXX-CCXXXII (omessi in R). Il testo è percorso da dinamismi di segno opposto, che prevedono tanto l’accorpamento dei capitoli, quanto il loro frazionamento, secondo una ratio difficile da decrittare, che provoca un parziale scompaginamento della materia rispetto a F (un regesto degli interventi in Gennari 2009, pp. 42-47).

Benedetto (1928), p. CLXXXIV considerava VB una «versione di un testo franco-italiano», condotta su un modello «vicinissimo […] all’esemplare che possediamo, cioè F» (e vd. Burgio c.s.). In questa cornice, la redazione si distanzia dalle altre versioni per il suo carattere di rimaneggiamento, e per la sua spiccata inclinazione ad alterare il dettato poliano sul piano contenutistico e su quello formale: (a) attraverso l’accentuazione del ruolo autoriale di Marco, che diventa protagonista a tutti gli effetti della so lezenda. La frequente incursione della prima persona, e di più o meno probabili certificazioni autoptiche (ad es. VB LIX 7: «[…] et de quella lana bianchissima et sotille più de seta io Marcho Polo ne dussi qui a Venexia chome mirabele chossa et chosì da tuti fo reputata»), è uno degli “effetti collaterali” di questa personalizzazione, insieme all’eclissi della figura di Rustichello; (b) la drammatizzazione delle parti dialogiche (fenomeno che non è esclusivo di VB, ma che attraversa le redazioni veneziane e venete cronologicamente più tarde, vd. Burgio c.s.; Simion c.s. per V; Gobbato 2009, p. 98 per VL); (c) l’inserzione di dettagli biografici, geografici o storiografici verosimili, ma non attestati nella tradizione, che inducono a sospettare che il redattore abbia attinto in più occasioni a fonti esterne: così la menzione del muschio (vd. VB LX 4: «et portai miego qui in Veniexia la testa e i piedi de uno de diti animali sechi et del muschio»), che trova una conferma nella presenza di un bossolo di muschio e di un sacchetto di pelo dell’animale nell’inventario dei beni mobili di Polo, di cui è conservata una copia datata 13 luglio 1366 (vd. Barbieri 2004, pp. 15-20); la glossa a calizene; un addendum relativo ai rubini del re di Seilan; ecc.; (d) a livello stilistico, VB, ormai lambito dall’«ondata umanistica», abbandona la sobria «struttura paratattica di Marco-Rustichello» a favore di «una sostenuta ipotassi boccacciana» (Renzi 1999, pp. 16-17) che rivela tuttavia, nella realizzazione concreta, un certo provincialismo.

Il testo che qui si pubblica è quello fissato da Gennari 2009 (testo-base il Donà delle Rose), in alcuni casi verificato direttamente sui codici.

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La redazione L. [EB]

Sotto il titolo, maggioritario nei codici, Extracta et translata de libro Domini Marchi Paulo de Veneciis de diversis provinciis et regnis maioris Asie, et de diversis moribus habitancium et de multis mirabilibus in hiis locis (ma sono attestate pure le rubriche Liber qui vulgari hominum dicitur El Meliolesic per Melione –, e Itinerarium nobilis et discreti viri Domini Paulo de Veneciis […]) circolò fra Tre e Quattrocento l’epitome latina del Milione nota sotto la sigla “redazione L” (attribuitale da Benedetto 1928), e oggi conservata in sei codici (vd. Dutschke 1993, s. v.; Burgio, Mascherpa 2007, p. 133: le sigle N e R vanno corrette in X e B). Tre, i più antichi, sono di area padana: F – Ferrara, Bibl. Ariostea, cl. II 336 (Emilia? inizio del XIV sec.); V – Venezia, Civico Mus. Correr, Cicogna 2408, ff. 9r-36r (Padova, 1401); X – collezione privata ignota, ff. 1r-49v (Ferrara, 1373: vd. Dutschke 1993, p. 487). Tre, quattrocenteschi e direttamente dipendenti da un modello perduto per molti tratti affine a F, furono redatti e circolarono in area renano-nederlandese: A – Antwerpen, Bibl. Moretus-Plantin, M 16.14 (Fiandre, XV sec.); B – Bloomington, Indiana Univ., Lilly Libr., Allen MS, ff. 1a-35d (Fiandre? XV2 sec.); W – Wolfenbüttel, Herzog-August-Bibl., Guelf. 41 Weissenb., ff. 121a-160d (metà del XV sec., Renania meridionale) (vd. Buzzoni, Burgio, Modena, Simion c.s., par. 2).

Extracta et translata: una versione in epitome, appunto. Alcune tenui tracce linguistiche (tutte di carattere lessicale) suggeriscono con cautela che il suo redattore lavorasse in area veneta, forse addirittura veneziana (vd. Burgio, Mascherpa 2007, pp. 142-147); e sempre per ragioni linguistiche (l’accordo dell’epitome con la redazione F in lezioni caratteristiche per la loro eccentricità o erroneità) è ragionevole supporre che egli avesse come modello base per il suo lavoro una copia francoven. del testo, e dalla fisionomia non troppo diversa da quella leggibile nel fr. 1116 (Burgio, Mascherpa 2007, pp. 138-142). Del resto, un dato macrostrutturale offre un solido punto d’appoggio: i capp. 198-202, conclusivi dell’epitome (De provincia obscura;De provincia Rosia;De provincia Lac; De regibus Tartarorum Orientis; De quadam guerra), si susseguono secondo l’ordine – maggioritario nella tradizione poliana – di F (capp. CCXVII-CCXXXII) e non di Z toledano (capp. 151-166). Il trattamento del modello (ridotto in 202 capitoli) si sviluppò secondo una strategia basata su due punti fermi, che descrivo qui ricorrendo a una scelta non esaustiva di esempi.

(a) Conservazione del prolegue iniziale, ma riduzione delle parti diegetiche di F: (1) sono soppressi, tra gli altri, i resoconti del miracolo del ciabattino di Baghdad (F XXV-XXVIII = R I 8 11-29), delle guerre di Qubilai contro il re di Mien e per la conquista di Mangi (F CXX-CXXII / R II 42; F CXXXVIII / R II 55), dei conflitti fra i Tartari di Levante e i Tartari di Ponente (F CCXI-CCXXXII, assenti in R); (2) è drasticamente ridotta (per contrazione/omissione di pericopi) la dimensione di alcuni resoconti: quello della fine del Califfato nel 1255 (F XXIV / R I 8 1-10) è ridotto a par. 6 del cap. 23; la vicenda degli Assassini (F XL-XLII / R I 21) è ridotta al cap. 35 (eliminando buona parte del cap. XL e l’intero XLI); la storia del conflitto tra Qubilai e Nayan (F LXXVI-LXXX 2 / R II 1 5 e sgg.) si riassume nel par. 4 del cap. 66.

(b) “Razionalizzazione” della dispositio della materia corografica. L’epitome (1) ristabilisce l’ordine “logico” dei capitoli (per cui i capp. F CLXXII / R III 19 e F CLXXVII / R III 23, entrambi dedicati a Sri Lanka sono riordinati nella sequenza 159-160); (2) suddivide in più unità i capitoli di F in cui si raccolgono più schede corografiche (per cui dati forniti in F XXXVI / R I 15, R I 16, R I 17 sono distinti in L 30-31; (c) raggruppa in unità più capitoli tematicamente omogenei (i capp. F LXXXVI-LXXXVII / R II 11, dedicati alle feste per il compleanno di Qubilai, sono riuniti in L 72).

L’analisi microtestuale conferma l’antico giudizio di Benedetto (1928, p. CLXXX) sulle qualità del redattore e del suo lavoro: «di tutti i compendi ricavati dal libro di Marco è questo senza dubbio il migliore», visto che esso «conserv[a] della materia quello ch’è veramente essenziale, attenendosi con fedeltà rispettosa e per lo più intelligente al pensiero dello scrittore, in una forma concisa ed energica che ha spesso una distinzione ignota alle altre redazioni latine del Polo»; un’attenta e intelligente lettura del modello porta il redattore al riconoscimento di tutti i topics contenuti in ogni sua porzione, al loro isolamento e conservazione a fronte della sistematica eliminazione degli elementi circostanziali che funzionano da comment, fornendo dettagli secondari.

C’è un’ultima ragione – ben nota a Benedetto (1928, pp. CLVIII sgg.) – che rende l’epitome particolarmente interessante: essa conserva un numero discretamente significativo di addenda informativi a F. Un caso per tutti: il cap. 22 – «Prope hanc provinciam est alia provincia dicta Mus et Meridiem, in qua nascitur maxima quantitas bombicis; et hic fiunt bochorani et alia multa, et sunt mercatores homines et artiste» – è una scheda corografica che L condivide solo con Z e V (e confluita poi in R: vd. le note a R I 6 4  e R I 6 5). Data la stretta relazione testuale che lega l’epitome a F, bisognerà ammettere che il redattore abbia collazionato il testo del suo modello base con un altro esemplare (non necessariamente francoven.) più ricco in informazioni, e da lì abbia recuperato gli addenda. Allo stato della ricerca, un testimone della redazione V è il candidato più attendibile.

Il testo che si pubblica qui è quello fissato da E. Burgio per l’edizione critica a stampa nel 2015.

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La redazione V. [SS]

La redazione veneziana Dela insti‹tu›zione del mondo è conservata da un solo testimone, il cod. Berlin, Staatsbibl., Hamilton 424 (vd. Simion 2008). Esemplare tardo (da ricondurre all’ultimo decennio del Quattrocento, giusta l’indicazione delle filigrane) e dalla lezione spesso guasta, punto d’arrivo di una tradizione fortemente logorata nel tempo, V documenta nondimeno uno strato precedente più ricco ed esatto, che lo colloca su un piano di valore molto vicino a quello di Z per l’apporto alla ricostruzione del testo complessivo. La redazione non ha generalmente goduto di molto credito tra gli studiosi, a causa soprattutto dell’eccentricità della sua lezione (evidente fin dal titolo, dal sapore trattatistico-enciclopedico, ma isolato nella tradizione), che le ha conferito nel tempo un marchio di inaffidabilità.

Il testo, scritto in una bastarda mercantesca con influenze umanistiche, è suddiviso in 119 capitoli rubricati; il capitolo proemiale è conservato («Qui chomenza il prologo del libro chiamado dela insti‹tu›zione del mondo»), insieme al nome del concaptivo Rustichello da Pisa. La narrazione si interrompe (senza che si verifichi caduta di carte) alla fine di c. 142r, nel cap. 119, «Qua se narerà dela provinzia dela Schuritade» (poco prima del punto in cui termina anche VA), dedicato alle regioni della Russia e della Siberia (F CCXVII = R III 45). Oltre all’omissione del capitolo su Chomain (F CLXXX = R III 26), di cui viene mantenuta solo la rubrica introduttiva, si riscontrano sporadicamente soppressioni di pericopi di entità variabile (una delle maggiori cade all’interno del capitolo 21, sul Vecchio della Montagna, F XLI 6-13-F XLII 1-10 = R I 21 10-12). Il numero inferiore di capitoli rispetto alla redazione francoven. si giustifica non con una perdita di materia, ma con le strategie adottate dal copista-riduttore nella riorganizzazione del testo: in particolare alcune serie di capitoli vengono unificate sotto un solo titolo in base a criteri tematici, richiamati nell’agglutinazione delle rubriche (secondo uno schema grosso modo binario per le schede corografiche, contenutistico per quelle storico-narrative), senza che si produca necessariamente perdita di contenuto informativo. In generale, anzi, in V è visibile una «volontà di copia» analoga a quella descritta da Bertolucci Pizzorusso (1975, p. 354) per alcuni testimoni toscani del gruppo TA; a questo proposito, Benedetto (1928) individuò tra i tratti caratteristici di V un buon grado di fedeltà a F, evidente soprattutto sul piano macrotestuale, nell’articolazione dei capitoli. A livello microtestuale, pur nell’intenzione di preservare la completezza del testo, il copista-riduttore interviene spesso con tagli di carattere formale, secondo una strategia tanto diffusa nella trafila di copia del Milione da configurarsi come standard; a differenza di altre redazioni, però, in V questo processo di potatura, se da un lato è meno aggressivo (ad es. nel trattamento del formulario rustichelliano, vd. Simion c.s.), dall’altro ha come esito frequenti trivializzazioni e guasti (la cui eziologia è a volte talmente complessa da ricostruire, da far pensare che il modello stesso non fosse in buono stato, come risulterà dal commento delle singole pericopi).

La difficoltà di valutare esattamente la posizione di V all’interno della tradizione risultava già chiara a Benedetto (1928), che oscillava tra due partiti: riconoscere in V la «versione veneta della versione latina di un testo franco-italiano», o, in alternativa, una copia contaminata. Se gli elementi da lui addotti (pp. CLXXVII-CLXXVIII) per dimostrare l’utilizzo di un esemplare francoven. da parte del redattore non reggono, perché gli stessi fatti si giustificano altrettanto bene postulando un antigrafo latino, resiste invece l’argomento di un modello latino, appunto, con la mediazione di almeno un interposito volgarizzato, documentabili entrambi (strato latino e volgare) attraverso numerose lezioni, che offrono contemporaneamente un campione delle modalità di travisamento e degradazione del testo (Simion 2011b, pp. 27-44; Simion c.s.). Resta da chiarire quale sia il rapporto di questo modello latino con la redazione Z, cui V è legato dalla presenza di lezioni fortemente affini (vd. Simion 2011b, pp. 41-44). Dalla valutazione di questo nodo discende direttamente anche il giudizio sui rapporti tra V e R: copia fisicamente presente sullo scrittoio ramusiano, o «prodotto di scarto dell’«affinità» tra la disgraziata redazione veneziana e quella (toccata dal dito della Précellence) latina», cioè Z (Burgio, Gennari 2011, p. XXVI)? Mentre stiamo sottoponendo a test in vivo l’ipotesi ricostruttiva di Burgio, Eusebi 2008 (vd. anche Burgio, Simion c.s.), in vista dell’edizione di V, i dati certi: (a) va esclusa una dipendenza diretta dallo Z toledano: lo attestano la presenza di addenda di Z non condivisi da V, e, in direzione opposta, la conservazione in V di passi e interi capitoli non accolti da Z; (b) alcuni degli errori separativi della tradizione Z (laddove V presenta la lezione di F) sembrano riferibili al suo modello completo (vd. Mascherpa 2008, pp. 171-184; Simion c.s.).

Il testo che qui si pubblica è quello fissato da Simion 2008, integrato con le correzioni in vista dell’edizione critica che si pubblicherà nel 2015.