3. Le fonti di Ramusio e il loro trattamento nella compilazione de «I Viaggi di Messer Marco Polo»

(Alvise Andreose, Eugenio Burgio e Giuseppe Mascherpa)

 

Indice – Preliminari. Il libro I. Il libro II.Il libro III.

Preliminari. [AA]

Il confronto rigoroso tra il Milione edito da Ramusio nel II volume delle Navigationi et viaggi (R) e i testimoni che, negli studi precedenti, sono stati indicati come le sue fonti, ha permesso di confermare e al contempo di rettificare parzialmente la ricostruzione proposta da Benedetto (1928) nei prolegomeni alla sua edizione critica. Egli riteneva che R fosse stata concepita originariamente come una «versione di P» (Benedetto 1928, p. CLVIII). Il rinvenimento di altri esemplari «a penna», tra cui l’autorevole “codice Ghisi” (vd. par. 1), sarebbe intervenuto solo quando il lavoro di traduzione e di preparazione dell’edizione era già in corso. Dopo avere esaminato tali manoscritti, Ramusio avrebbe avuto cura di «sceverarne le novità più interessanti per contaminarle colla lezione già scelta», ossia con quella della versione latina di Pipino (ivi, p. CLIX). L’opinione di Benedetto si appoggiava – prima che sull’esame dei dati risultanti dalla comparazione di R con i suoi supposti modelli – sul tenore delle dichiarazioni ramusiane contenute nella Prefatione (par. 68) già citate nel par. 1 di questa Introduzione: la sua analisi ha permesso di stabilire che l’esemplare di «di maravigliosa antichità» era latore della redazione latina Z, di cui il codice toledano costituisce un testimone lacunoso. Stando alla Prefatione, tale esemplare – che gli studiosi indicano generalmente con la sigla Z1 – sarebbe stata collazionato (incontrat[o]) con la versione del testo poliano che l’editore si accingeva a dare alle stampe («[…] con questa che al presente mandiamo in luce»). L’asserzione – che in modo ingannevole lascia trasparire una contenuta rilevanza del “codice Ghisi” nella constitutio textus – dimostra come R sia l’esito di un procedimento complesso, che si svolse attraverso almeno due fasi elaborative fondamentali: dopo una primitiva stesura, la collazione con un esemplare particolarmente antico e autorevole avrebbe condotto a una seconda versione del testo. Tale ipotesi ricostruttiva trova riscontro nella presenza, all’inizio dell’opera, di due versioni del capitolo liminare (F Prologo). Sempre nella Prefatione, Ramusio avverte il lettore di aver trovato nei suoi modelli due proemii e di non avere «voluto lasciare di non rimettergli tutti due, per maggior satisfazione e contentezza de’ lettori, acciò che uniti servino piú abbondantemente in vece di prefazione del detto libro» (par. 78). Il primo prologo – posto in posizione liminare – riflette nella sostanza la lezione di Z, e, secondo l’editore, sarebbe stato scritto «per [‘da’] quel gentiluomo di Genova molto amico del predetto messer Marco, e che l’aiutò a scrivere e comporre latinamente il viaggio mentre era in prigione» (ibid.); il secondo prologo, collocato subito dopo il precedente, è quello ricavato dalla redazione latina di «frate Francesco Pipino bolognese, dell’ordine de’ predicatori» (ibid.), cioè da P. Secondo Benedetto (1928, p. CLIX), la scelta di riprodurre due diversi proemi sarebbe stata dettata dalla volontà dell’editore di indicare esplicitamente fin dall’inizio dell’opera i due principali modelli su cui si fonda il suo testo: «quello solito della versione pipiniana e quello ch’egli trovava nel prezioso cimelio del Ghisi». Tale congettura appare del tutto condivisibile, anche se si può pensare che la giustapposizione dei due prologhi e la loro mancata fusione in un unico organismo rifletta pure il duplice stadio di elaborazione che parrebbe essere all’origine di R.

Appare, invece, in parte da correggere il giudizio di Benedetto, secondo cui P sarebbe la «base» di R «per la sostanza e per lo stile», oltre che «per la squadratura dell’opera (Benedetto 1928, p. CLXII). Se è molto probabile che, originariamente, Ramusio avesse concepito il suo testo come una traduzione di P, a cui di fatto si riconosce lo status di modello principale nel passo già citato della Prefatione, non si può certo dire che il risultato finale dell’operazione editoriale intrapresa dall’umanista sia rimasto «nella sostanza [...] una versione di P», arricchita di dettagli e episodi ricavati da Z1 e da altri esemplari del Milione (Benedetto 1928, pp. CLVIII-CLIX). Limitatamente alla «squadratura dell’opera» si può certamente consentire con il giudizio di Benedetto. L’influsso di P è sicuramente percepibile nell’architettura generale del testo, in particolare nella sua ripartizione in tre libri, nella scansione dei capitoli all’interno di ciascun libro e nell’omissione, nell’accorpamento e nella semplificazione di varie sezioni. Appare improprio, tuttavia, ritenere che tale parallelismo strutturale implichi sempre «un’effettiva sovrapponibilità testuale e contenutistica tra le due versioni» (Mascherpa 2007-2008, p. 113). Certo, non mancano casi in cui P fornisce, oltre all’intelaiatura del testo, anche la sostanza testuale. I punti in cui la sua presenza nel dettato di R è più marcata sono l’inizio e la fine dell’opera (R I 1 e R III 43-46), ma anche nella seconda parte del II libro il suo apporto non è trascurabile (Mascherpa 2011, p. XXII; Andreose, Barbieri 2011, pp. 103-107). Nel complesso, tuttavia, il suo contributo alla costruzione di R appare nettamente inferiore a quello di Z1. Vien da pensare, dunque, che la disposizione dei proemi all’inizio dell’opera, che vede in prima posizione la versione del «codice Ghisi», rispecchi in qualche modo l’effettiva gerarchia di importanza delle due fonti principali di Ramusio.

In tutto il libro I – tranne che in I 1, che, come si è detto, si attiene per larga parte a P – e nella prima parte del libro III (R III 1-27) il modello preminente e, non di rado, esclusivo di R è il perduto codice Z1. Nella seconda parte del libro III l’incidenza di Z1 va riducendosi, mentre aumenta proporzionalmente il peso della versione di Pipino, che diventa predominante nei capitoli conclusivi (Mascherpa 2011, pp. XXIII-XXIV). Anche nel libro II Ramusio sembra aver tenuto conto in massima parte della testimonianza di Z1 (Andreose, Barbieri 2011, pp. 97-103). In realtà, l’assenza delle sezioni corrispondenti a R II 1-20 in Z toledano non permette di affermare con certezza che in questa sezione il modello base del testo ramusiano sia stato il «codice Ghisi». La forte affinità di R con F, tuttavia, induce a ritenere che l’esemplare di Ramusio in questo punto risultasse molto più prossimo all’originale di quanto non fossero le sue altre fonti certe (P e VB) e meno certe (L e V). A ciò andrà aggiunto che in questa parte del testo di R si conservano diversi brani che non figurano in nessun altro ramo della tradizione poliana. Trattandosi quasi sempre di dettagli che presentano evidenti caratteri di autenticità e che difficilmente possono essere ascritti a interventi interpolatorî dell’editore, l’ipotesi più plausibile è che essi risalgano a una redazione del testo più ricca di quella che le testimonianze superstiti ci hanno preservato (Benedetto 1928, p. CLXXIII). Anche nella seconda parte del libro II, dove l’opera di contaminazione dei modelli da parte di Ramusio si fa più serrata, l’incidenza di Z permane cospicua, benché sia in parte compensata dalla presenza crescente di P e, in misura ancora maggiore, di VB (Andreose, Barbieri 2011, pp. 102-103). Va rimarcato, finalmente, che l’apporto di Z alla costituzione del testo di R si profila rilevante anche dal punto di vista formale. Sono numerosissimi i punti in cui la traduzione ramusiana ricalca alla lettera, sia nelle scelte lessicali e sintattiche, sia nell’ordo verborum, il dettato di Z, così lontano dal latino “scolastico” di Pipino nella sua forte aderenza alle strutture linguistiche del volgare (Benedetto 1928, pp. CLXIV-CLXV; Terracini 1933, pp. 381-384, 420-424; Mascherpa 2007-2008, p. 42 sgg.; 2011, p. XXIV). 

Alcuni interpreti (Mascherpa 2007-2008, p. 117; Barbieri 2011, pp. 15-16) si sono chiesti perché Ramusio, potendo contare sulla testimonianza di un codice autorevole nella lezione e latore di numerose informazioni ignote al resto della tradizione, abbia continuato a dare tanto credito al testo, sovente compendioso e inesatto, di P. Un fattore che sicuramente ebbe un ruolo decisivo in tale orientamento fu il prestigio della “vulgata” pipiniana, che, tra i secc. XIV e XVI, godette di ampia diffusione soprattutto in ambiente ecclesiastico e presso il pubblico colto (Benedetto 1928, p. CLVII; Barbieri 1998, p. 38; Simion 2011a, pp. XVIII-XIX). Non si può escludere, inoltre, che l’uso intermittente di Z1 sia imputabile al cattivo stato di conservazione dell’esemplare posseduto da Ramusio (Mascherpa 2007-2008, p. 117). D’altra parte, se è vero che, come afferma Benedetto sulla base del citato passo della Prefazione, Ramusio avrebbe cucito «alla trama fornita da fra Pipino dei pezzi forniti dagli altri testi a lui noti» (Benedetto 1928, p. CLXXXVIII), i debiti verso P saranno da interpretare come retaggi inerziali della primitiva stesura del testo, più che come l’effetto di deliberate scelte dell’editore.

Nel punto della Prefatione in cui si enunciano gli obiettivi dell’edizione («[…] cosa ragionevole ho giudicato di far venir in luce il suo [= di Marco] libro [...] a mio giudicio perfettamente corretto et di gran lunga molto piú fidele di quello che fin hora si è letto» [par. 10]), Ramusio afferma di aver fatto ricorso alla testimonianza «di diversi esemplari scritti già piú di dugento anni» (ibid.). Secondo l’analisi di Benedetto (1928, p. CLXII) R sarebbe «la risultanza di cinque testi diversi»: oltre che di Z1 e P, di cui si è detto, il testo sarebbe debitore anche delle redazioni VB, L e V. Il fatto che, nella Prefatione, solo il codice Ghisi e la versione di «frate Francesco Pipino Bolognese» beneficino di una menzione esplicita, mentre gli altri esemplari siano appena evocati, parrebbe riflettere il diverso peso assegnato dall’editore alle sue fonti nella costruzione del testo (Barbieri 2011, p. XV). Questa considerazione si attaglia perfettamente alla redazione L, il cui peso nel ripristino testuale appare estremamente limitato. Benedetto (1928, p. CLXXXI) registra soltanto una «ventina» di coincidenze tra L e R. Una collazione sistematica ha permesso di documentare con maggiore sicurezza il rapporto tra le due redazioni, incrementando, seppure di poco, il numero delle lezioni comuni (Andreose 2011, pp. XXXII-XXXIII), ma ribadendo, nella sostanza, la sporadicità dei loro contatti. Se, dunque, la presenza di L sullo scrittorio ramusiano parrebbe confermata, forti dubbi sussistono invece sull’effettivo impiego della testimonianza di V. I nuovi sondaggi hanno messo in evidenza che gran parte delle varianti e delle aggiunte che, per Benedetto, suggerivano l’influsso di tale redazione su R, in realtà siano quasi sicuramente da attribuire a Z1, e risalgano dunque, con ogni verosimiglianza, all’originale. L’inventario delle innovazioni sicuramente spurie che V condivide con R risulta troppo esiguo per dimostrare con sicurezza la sua presenza tra le fonti ramusiane (Simion 2011b).

Di tutt’altra rilevanza appare il debito contratto da R verso VB (Benedetto 1928, pp. CLXXXVIII-CXCIII; Andreose 2011). L’incidenza di tale redazione si manifesta sia a livello formale che contenutistico, al punto che il suo apporto alla costruzione del testo viene configurandosi come il terzo in ordine di importanza dopo quello di Z1 e P (Mascherpa 2007-2008, p. 117). La sua presenza nel testo rimane costante, ma si fa particolarmente forte nella seconda parte del libro II, dove in diversi capitoli assurge a modello principale a scapito di Z1. Il credito accordato da Ramusio a VB risulta tanto più sorprendente, quanto più deteriore si profila la qualità della sua lezione: non sono pochi i casi in cui R recepisce errori e sviluppi arbitrari tipici di tale redazione, laddove Z e P recano il testo corretto. A spiegazione di tale scelta sono state addotte diverse ragioni: l’attaccamento di Ramusio a quella versione veneziana del Milione di cui possedeva una copia personale (sappiamo infatti che un esemplare di VB era presente nella sua biblioteca); l’apprezzamento per lo stile spesso enfatico e prolisso del volgarizzatore; la curiosità per alcuni dettagli stravaganti che potevano apparirgli originali; la possibilità di riprodurre direttamente nella sua edizione il testo del modello senza dover ricorrere alla traduzione (Mascherpa 2007-2008, pp. 117-118; Andreose 2011, pp. XXXV-XXXVI). Il difetto maggiore dell’operazione ecdotica da cui è scaturito R va ricercato, dunque, non tanto nella deferenza di Ramusio verso P, che nel complesso risulta latore di un testo di media qualità, quanto piuttosto nella sua immotivata predilezione per un testimone che, come VB, si mostra zeppo di fraintendimenti e interpolazioni. Tale condotta editoriale apparirebbe meno oscura qualora si volesse ammettere che il ricorso a questa versione sia intervenuto in occasione della primitiva stesura della traduzione ramusiana, fondata su P, e non nella successiva fase di collazione del testo base con Z1. Purtroppo, nessun dato né testuale né paratestuale può essere invocato a supporto di tale ricostruzione, che rimane pertanto nel campo delle mere ipotesi.

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Il libro I. [GM]

L’indagine sul I libro del Milione permette di precisare quanto si è già detto sul ruolo che Ramusio attribuisce alle sue fonti: Z rappresenta la fonte di gran lunga prediletta per la sostanza testuale della compilazione, e a P è riservato il compito di funzionare da riferimento cardine per l’impalcatura generale. Ma sotto questo rispetto, bisogna precisare alcuni fatti.

Da un lato, Ramusio aderisce in modo a tratti meccanico al disegno compositivo di P. Qualche esempio: egli rinuncia a inserire nel suo racconto la leggenda apocrifa sui re Magi e la descrizione delle loro sepolture in terra persiana (F XXX-XXXI, assente in P); isola in un capitolo autonomo (R I 24 = P I 33) la descrizione di Scassem; distingue in più capitoli, grosso modo corrispondenti ciascuno a un’unità tematica (da R I 44 a R I 48), la “monografia” sugli usi e costumi dei Tartari, adottando la soluzione ordinatoria di P I 54-61 e non quella propria alla tradizione. Dall’altro, la scelta di seguire l’impostazione di P è tutt’altro che dogmatica: capita così che la divisione dei capitoli, o la successione delle tessere testuali al loro interno, rispecchi le condizioni strutturali delle altre fonti dalle quali, di volta in volta, Ramusio attinge i contenuti, oppure rifletta l’iniziativa autonoma del compilatore, che si sforza di incasellare la materia in un disegno il più possibile razionale, nel tentativo di preservare la coerenza delle unità tematiche. La struttura della già citata “monografia” sui mores Tartarorum, per fare un esempio, è riconducibile (anche se non esattamente sovrapponibile) a P, ma al suo interno l’ordine degli argomenti trattati riproduce con esattezza la disposizione di Z; ancora, dipende da VB la divisione in tre unità tematicamente distinte del capitolo dedicato alla descrizione della regione del Tangut, del paese di Gog e Magog e della città di Ciagannor (P I 65, come nella red. francoit. F: R I 52-54 < VB LXII-LXIV). Ma il distanziamento forse più notevole dal disegno di P è nella porzione da R I 7 a R I 9, dove la sequenza dei capitoli (dedicati a Baghdad e alla sua conquista da parte di Hülegü, e alla descrizione di Tabriz) segue l’ordine della tradizione, e non di P (che, sul modello di VA XVI-XVIII, colloca la descrizione di Tabriz [P I 17] tra il capitolo su Baghdad e quello sul prodigio della montagna semovente).

Sono invece innovazioni strutturali attribuibili all’iniziativa di Ramusio: la fusione dei racconti dei viaggi in Oriente, della permanenza ventennale alla corte del Khan e del ritorno in patria dei mercanti Polo in un solo capitolo iniziale (R I 1), opportunamente separato dal resto del libro e valorizzato nel suo carattere di sezione autonoma di respiro storiografico; la circoscrizione in un’unica, monolitica sezione (R I 8), delle due vicende esemplari legate a Baghdad (il contrappasso patito dal califfo e il miracolo della montagna, altrove diluite lungo più capitoli); la trattazione sotto una sola rubrica (R I 21) del mito del Vecchio della Montagna e degli Assassini, distribuiti in due capitoli da P I 28-29. Ramusio è spesso responsabile anche della frammentazione di ciò che altrove è unito: è questo il caso, ad esempio, della divisione in due segmenti dell'ampio capitolo sulla piana di Hormuz (R I 15 «Della città di Ormus, che è posta in isola vicina alla terra sopra il mar dell’India, e della condizione e vento che vi soffia cosí caldo», e R I 16 «Delle sorti delle navi d’Ormus; e della stagione nella qual nascono i frutti loro, e del viver e costumi degli abitanti»), che in tutti i relatori a lui disponibili costituisce invece un blocco unitario (vd. L 30 «De alio magno descensu et de civitate Camandi», P I 23 «De campestribus Formosa et civitate Cormos et Cremam», V 20 «Del reame de Ereimain», VB XXII, Z 14).

L’allontanamento di R dal modello si fa ancor più evidente quando ci si sposta sul piano dei contenuti, che risultano desunti con impressionante regolarità da Z non solo in corrispondenza dei suoi addenda al testo di F, ma anche nei passi comuni all’intera tradizione, dei quali era a Ramusio disponibile la versione del domenicano, se il suo intento fosse davvero stato quello di realizzare «nella sostanza […] una versione di P» (Benedetto 1928, p. CLVIII).

In realtà, se ciò che interessava a Ramusio era di procurare un'edizione del testo «perfettamente corrett[a] et di gran lunga molto piú fidele di quello che fin hora si è letto» (R, Prefatione, par. 10), è naturale che, tra tutti quelli a sua disposizione, egli abbia scelto come testo base Z, un po’ per la ricchezza della lezione, un po’ per l'autorevolezza che promanava dal suo presunto (ma criticamente indifendibile) status di apografo; ed è altresì naturale che questa scelta abbia spinto ai margini la versione di Pipino, di cui, del resto, il compilatore stesso dichiara apertamente (ma forse inconsapevolmente) i limiti nella rubrica del Proemio secondo [...]

A ulteriore ridimensionamento del ruolo di P, è bene osservare come le venga preferita non solo la lezione dell’optimus Z, ma anche quella del rimaneggiamento veneziano VB, che in virtù del suo dettato eccentrico, ricco e accattivante, sopravanza in più punti, nelle gerarchie ramusiane (non sempre governate da scrupolo filologico), addirittura l'auctoritas del codice Ghisi; quantitativamente irrisorio, limitato a qualche minimo inserto quasi incidentale, parrebbe essere stato invece il ricorso a L e, soprattutto, a V.

L'unico luogo del I libro in cui P sembra effettivamente funzionare da testo-base – per consistenti lacune di Z1, o per un'iniziale dedizione, poi scemata, al dettato del domenicano? – è il capitolo proemiale, costruito nella sostanza sulla lezione di P, integrata con brani desunti probabilmente da Z (la ristrettissima possibilità di confronto con quel che resta di Z nel toledano certifica se non altro che R I 1 10 < Z 1 13), o dagli altri modelli (in specie VB), in un meccanismo di avvicendamento piuttosto mosso e articolato.

Da qui in avanti, e in particolare a partire dal capitolo sulle regioni dell’Anatolia centro-meridionale (R I 3), P retrocede nelle gerarchie ramusiane alla qualifica comprimaria di “testo di complemento” (e solo di rado, nel corso del I libro di R, ha un qualche peso nella constitutio textus), mentre diviene pervasivo e continuo lo sfruttamento della versione Z: si leggono in quasi perfetta sinossi con le omologhe sezioni del toledano (salvo che per minime sfasature determinate dalle peculiarità di Z1 o dalle frequenti lacune del nostro Z, da eventuali ritocchi ramusiani, dal ricorso complementare a P e VB), i capitoli 3-7, 9, 11-12, 14, 16, 18, 20, 22-23, 25-29, 31, 33, 38-39, 41, 51-53.

Per altri capitoli di R si può supporre la dipendenza, in toto o in massima parte, da Z1, anche in mancanza di un riscontro nella lezione toledana, inficiata da troppe e troppo severe lacune: nei casi in cui il nostro Z tace, parlano infatti in favore di una derivazione di R da Z1 la presenza di addenda non altrimenti attestati e la perfetta sovrapponibilità di R a F nei passi comuni all'intera tradizione. Questo emerge, ad esempio, nei capitoli 13 e 15, in molti dei capitoli che compongono la monografia sui Tartari (42-48), nel cap. 55: è qui piuttosto chiaro che la versione di Ramusio, nella sua prossimità al testo del Milione francoit., e nella sua distanza dal dettato degli altri modelli, non può che discendere dall’altrimenti ignoto Z1, che evidentemente ricalcava da vicino, qui come altrove, le linee di F, in più punti rimpolpate con passi aggiuntivi.

In altri casi ancora, per quanto Z continui a risultare – sia in praesentia che in absentia del riscontro toledano – il modello prevalente, caratteristica della versione ramusiana è la composizione a mosaico, realizzata per giustapposizione di porzioni testuali attinte alle varie fonti: ad esempio, è una successione di ampi segmenti rispettivamente estratti da VB, P e Z a dar corpo al cap. 2, o al 37 (forse anche con qualche minimo ricorso a V); un accurato montaggio di Z e VB costruisce invece le narrazioni esemplari relative a Baghdad (cap. 8) e il capitolo 21, dedicato al Vecchio della Montagna.

Soltanto in un ristrettissimo drappello di casi Z non è il modello preminente: in R I 17, modellato perlopiù su P; in R I 30 4-6, dove l’utilizzo esclusivo di P I 39 e VB XXXIV nella narrazione del miracolo della colonna di san Giovanni Battista in Samarcanda supplisce probabilmente a un'ampia lacuna di Z1, simile a quella che elimina l’intero passo in Z toledano (vd. Z 26 1); in R I 35, dove gli sviluppi di P e VB hanno la meglio su Z per i loro ampi addenda sull’utilizzo di asini e cammelli nell’attraversamento del deserto del Gobi (P I 44) e sui molteplici inganni degli spiriti delle sabbie (VB XXXIX); in R I 43, dove Ramusio, nella narrazione dello scontro armato tra gli eserciti del Prete Gianni e di Chinggis Khan (pericopi 10-14), sembra preferire la snella lezione di P I 53 agli sviluppi prolissi di Z1 e VB, sul cui dettato è costruito tutto il resto del capitolo.

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Il libro II. [AA]

Il II libro esibisce forti somiglianze con P sotto il profilo della «squadratura dell’opera» (Benedetto 1928, p. CLXI). La divisione in capitoli riflette per larga parte quella della versione del domenicano, che, d’altro canto, in diversi casi trova riscontro in Z e in F (Andreose, Barbieri 2011, pp. 79-80). Il debito che R intrattiene con P nell’organizzazione della materia è però evidente in quei capitoli che le altre versioni includono generalmente in segmenti testuali più ampi: capp. 3 (= P II 7), 7 (= P II 10), 10 (= P II 13). Si danno anche casi in cui R e P riuniscono in una singola unità informazioni che nel resto della tradizione sono perlopiù distribuite in due o tre sezioni: vd. i capp. 6 (= P II 9), 11 (= P II 14).

La vicinanza di R a P si manifesta più chiaramente in quelle parti in cui capitoli o porzioni di capitolo vengono spostati per ragioni di coerenza interna. Per esempio, nei capp. 11 e 12 R preferisce seguire l’organizzazione della materia che trova in P rispetto a quella offerta dal resto della tradizione. Un altro punto in cui Ramusio si attiene alla struttura di P si ritrova nel cap. 21. Pipino, seguito da R, anticipa le informazioni sulle scorte di grano del Gran Khan (R II 21 2-3) nella sezione in cui si parla degli aiuti imperiali destinati alle popolazioni colpite da carestie e altre calamità. Nelle altre versioni questi dettagli sono collocati più avanti (vd. F CII 2,4-5).

La dipendenza strutturale da P si intravede anche in altri punti del testo. L’ampio brano dedicato alla conquista mongola dei regni di Mien e di Bangala (R II 42) è omesso in Z toledano, ma è probabile che il codice Ghisi rispecchiasse la struttura di F, che divide la narrazione in tre capitoli (CXX-CXXII); come P II 42, R comprime il racconto in un solo capitolo. Ma la concordanza più eclatante tra R e P si trova nel cap. 53: il R si attiene alla versione di P (che a sua volta dipende da VA) e condensa nella parte finale del capitolo informazioni relative ad alcuni centri minori (Lingiu, Pingiu, Cingiu) che nelle altre redazioni poliane sono descritti in modo più analitico.

L’adozione di P quale modello base per l’articolazione dei capitoli non appare costante. Non sono pochi i casi in cui Ramusio adotta una segmentazione della materia diversa da quella che si incontra nel testo di Pipino. Il riassetto più radicale è in apertura del libro: la scelta – quasi sicuramente ascrivibile all’umanista – di riunire in un unico capitolo tutto il racconto dello scontro tra Cublai e Naiam, fa sì che in R siano accorpati in un’unica sezione (cap. 1) i capitoli di P II 1-6. Ancora. In R II 37 si raccolgono le notizie relative alle regioni tibetane distribuite in P II 36-37; la fusione nel solo R II 49 delle schede riguardanti le località di Cintigui, Sindinfu, Gingui, Pazanfu non ha riscontro nella bipartizione di P II 49 e P II 50 (è ragionevole ritenere che la riorganizzazione della materia sia da ascrivere a Ramusio, ma non si può escludere che essa sia stata ispirata da VB XCII e V 62, che presentano la stessa suddivisione dei contenuti). Un caso simile è costituito da R I 55, corrispondente a P II 53-54: la fusione dei due capitoli pipiniani, forse suggerita dall’analoga soluzione di VB CI e V 67, riunisce in una sola unità testuale tutte le notizie riguardanti la conquista mongola del Mangi.

È possibile che si verifichi anche il fenomeno opposto: dettagli che in P erano concentrati in un solo capitolo vengono frazionati in R in due o più unità. P II 66, per esempio, viene scomposto in tre capitoli: 70-72 (ristrutturazione che potrebbe essere stata suggerita da VB CXV-CXIX e da L 133-137, che distribuiscono gli stessi materiali in cinque capitoli); e P II 68 corrisponde la bipartizione di R II 74 e R II 75.

Altrove, le discrepanze rispetto a P sembrerebbero dovute – più che alla libera iniziativa di Ramusio – a un’opera consapevole di collazione e contaminazione delle sue fonti. In vari punti del testo, infatti, R sembra attenersi alla scansione dei capitoli di Z – ricostruibile, in assenza del riscontro del toledano, in F –, piuttosto che a quella della redazione pipiniana. Mentre P accorpa al capitolo 24 anche il passo relativo alla «mirabile liberalità che ’l Gran Can usa verso i poveri», R II 21 e R II 24 consacrano all’argomento un capitolo a sé stante, come fanno F XCVIII / F CIII, V 48 / V 49, VB LXX / VB LXXII. Come F LXXXII (Z om.) R II 5 dedica un capitolo ai figli del Gran Khan, materia che P II 8 ingloba nel capitolo dedicato all’aspetto fisico del sovrano, alle sue mogli e alle sue concubine. R II 22 concorda con F XCIX e L 81 (Z om.) nell’assegnare a una sezione autonoma la descrizione dell’usanza di piantare alberi lungo le strade maestre dell’impero, laddove P II 24 la include nel capitolo riservato ai provvedimenti dell’imperatore contro la carestia (P). In vari casi, poi, R si accorda con Z contro P nella scansione dei capitoli: R II 33, Z 49 (ma anche L 89), vs. P II 31 (e F CIX, V 52); R II 52 e R II 53, Z 68  e Z 69 vs. P II 51; R II 57 e R II 58, Z 74 e Z 75 vs. P II 56; R II 59 e R II 60, Z 76 e Z 77 vs. P II 57; R II 61 e R II 62, Z 78 e Z 79 vs. P II 58. R, inoltre, come Z contiene due capitoli (R II 25 e R II 26 = Z 44 e Z 45), dedicati rispettivamente agli «astrologhi che sono nella città di Cambalú» e alla «religione de’ Tartari», che non trovano riscontro nel resto della tradizione. Appare ragionevole ritenere, dunque, che nella «squadratura dell’opera» Ramusio abbia tenuto conto non soltanto di P, ma anche del «codice Ghisi» (Z1).

Il ruolo giocato da P nella costituzione della vera e propria “sostanza testuale” di R appare nel complesso marginale (Andreose, Barbieri 2011, pp. 91-96). In gran parte del libro II Ramusio adotta come modello base un testo meno succinto – sia sotto il profilo stilistico, sia sotto quello propriamente contenutistico – di quello offerto dalla redazione di Pipino. Anche la tendenza di P a sopprimere le informazioni ridondanti e a riorganizzare la materia in modo più organico e coerente, non pare sia stata recepita da R, che – salvo i pochi casi di cui si è detto sopra – presenta all’interno dei capitoli un’articolazione della materia per larga parte coincidente con quella di Z e F, oppure, in alternativa, di VB. Nei punti in cui P è caratterizzato da innovazioni rispetto al resto della tradizione, il suo apporto alla costruzione di R risulta perlopiù circoscritto a porzioni di testo di dimensioni ridotte. In generale, i casi in cui i prelievi dalla versione pipiniana riguardano segmenti di una certa ampiezza sono sporadici. Sia a livello testuale che formale, in questa sezione dell’opera le fonti principali sono rappresentate da Z e da VB.

La difficoltà principale che si incontra nello studio dei rapporti tra R e Z nel libro II risiede nel fatto che in Z toledano è stata omessa gran parte della “monografia” sul Gran Khan contenuta nei capitoli 1-24 di R, con la sola eccezione della prima pericope del capitolo 23. A partire dal capitolo 25 (44 di Z), le lacune sono di minore entità e interessano soltanto una manciata di capitoli (R II 31-32, 42, 43, 55), cosicché il confronto tra le due versioni diviene più agevole.

Nella parte che comprende i capitoli 25-30, 33-36 di R e 44-53 di Z, la rispondenza tra il testo ramusiano e quello tràdito dal codice Zelada è molto forte (Andreose, Barbieri 2011, pp. 97-99). Oltre alla quasi completa sovrapponibilità tra le due versioni per ciò che concerne gli aspetti propriamente formali (sintassi, lessico), il sintomo certo più evidente del fatto che il modello base di Ramusio era un affine di Z, è fornito dalle numerose lezioni particolari che isolano i due testimoni dal resto della tradizione. Tra queste vanno anzitutto ricordati i capitoli già citati sugli astrologi di Cambalú e sulla religione dei Tartari, che nessun’altra redazione poliana tramanda. Tuttavia, l’indizio decisivo che prova la vicinanza tra l’antigrafo di Z e la fonte di R è costituito dalla presenza nei due testimoni di una serie – non cospicua ma senz’altro significativa – di errori comuni (Andreose, Barbieri 2011, p. 98 nota 53). Oltre al blocco abbastanza coeso di capitoli che figura in entrambe le versioni, l’aderenza di R a Z si nota anche nell’unico segmento testuale compreso nella sezione dedicata al Gran Khan che non è stato omesso nel manoscritto di Toledo, ossia la parte del cap. 23 dedicata al vino del Catai (R II 23 1).

Nei passi in cui manca la testimonianza del manoscritto Zelada, non si può stabilire con sicurezza se il riferimento principale di Ramusio sia stato o meno il codice Ghisi (Z1). In realtà, quando R reca un testo molto vicino a F e, all’opposto, le altre sue fonti – sicure (P, VB) o possibili (L, V) – appaiono scorrette, interpolate o comunque lontane dalla lezione originale, l’ipotesi più economica è senz’altro quella di ritenere che il suo modello base sia stato Z1. Ne discende, per corollario, che la fonte ramusiana doveva essere più completa – e in taluni casi più corretta – della redazione conservata da Z toledano. Alla luce di tali considerazioni, non sembra arrischiato supporre che anche le parti tràdite dal solo R in punti in cui Z è lacunoso, fossero in origine nella loro fonte comune (Benedetto 1928, p. CLXXIII): i parr. 2 2-16; 4 6-7 e 10-14; 6 2, 8, 10, 12, 14, 18, 23 e 26; 7 7-8 e 15-18; il cap. 8; i parr. 9 4; 10 2 e 9-12; 12 10-12; 14 2; 15 4; 19 2-4; 20 7-11 e 18-20; 21 6-7; 21 3-4; 23 3; 24 3-5; 32 3.

Anche nella seconda parte del libro II (capp. 37-79), la dipendenza di R da una fonte affine a Z è palese, sebbene appaia senz’altro meno marcata che nella prima parte. Ciò dipende prevalentemente dal fatto che, in questi capitoli, Ramusio mette in atto una collazione più serrata delle sue fonti, al punto che non risulta spesso possibile stabilire quale tra di esse venga eletta a modello base. A partire dal cap. 39 si intensificano progressivamente i prelievi da VB, e il peso di Z1 va attenuandosi col crescere dell’importanza di quest’ultimo.

VB rappresenta, insieme a Z e – in misura minore – a P, uno dei modelli fondamentali del libro II (Andreose, Barbieri 2011, pp. 103-107). Già nel cap. 1 il suo apporto si rivela significativo. Non di rado Ramusio accoglie a testo le innovazioni – perlopiù aggiunte, amplificazioni, chiose esplicative – che sono tipiche di tale redazione. Subito dopo la cospicua lacuna presente in VB (capp. 2-16 di R), il suo impiego nella costruzione del testo diviene temporaneamente contenuto. Tra i capitoli 17 e 36 di R (LXVIII e LXXX di VB) i luoghi che provano con sicurezza il contatto tra le due redazioni si contano sulle dita di una mano. Parrebbe, dunque, che proprio l’incompletezza di VB tra i capp. LXVII e LXVIII abbia influito sulla scelta di Ramusio di privilegiare momentaneamente altre fonti.

La rilevanza di VB ritorna ad essere considerevole a partire dal capitolo 37 di R (LXXXI di VB). Tuttavia, diversamente da quanto aveva fatto in prevalenza nella prima metà del libro II, Ramusio non si limita più a ricavare singole espressioni o frasi da tale fonte, ma in molti casi si spinge fino ad assumerla quale modello base per il dettato testuale. La forte adesione a VB è riconoscibile in almeno una sessantina di pericopi di R, al punto che si può affermare che, in questa parte dell’opera, l’apporto di tale redazione al testo del Milione ramusiano risulti quasi equipollente a quello di Z1. Occorre però dire che l’impressione generale ricavabile dalla sinossi dei modelli di R è che Ramusio ricorra a VB solo quando esso reca un testo convergente nella sostanza con quello degli altri suoi esemplari (in particolare di Z1), o eventualmente più ricco. Laddove la lezione di VB è compendiosa, lacunosa o poco comprensibile, R si attiene al dettato di Z.

Il contatto di R con le altre fonti identificate da Benedetto (1928, pp. CLXII, CLXXIII-CLXXXI), L e V, appare meno evidente. I casi di accordo di R con L sono ridotti di numero e spesso poco significativi. Si danno, però, anche delle lezioni particolari alle due redazioni che difficilmente possono essere attribuite alla poligenesi (vd. R II 7 2; R II 17 7; R II 20 1; R II 35 5; R II 38 3; R II 63 7; R II 64 2; R II 72 1). Il dato, dunque, parrebbe confermare che, seppur sporadicamente, anche L abbia contribuito alla costruzione del libro (Benedetto 1928, p. CLXXXI; Andreose, Barbieri 2011, pp. 112-114).

Più problematico appare individuare nel testo tracce del contatto di R con V. I passi in cui le due versioni recano dei dettagli supplementari caratterizzati da evidenti tratti di autenticità (R II 9 3;R II 11 3; R II 12 14; R II 21 1), si collocano in punti del testo in cui manca la testimonianza di Z toledano, e dunque potrebbero risalire direttamente a Z1. Sono documentati anche casi di varianti comuni a R V che non possono essere considerate originali (R II 6 17; R II 7 4; R II 12 6; R II 16 1; R II 20 13;R II 31 1): si tratta, tuttavia, di innovazioni prive di reale valore congiuntivo, che non appaiono sufficienti a provare con certezza, almeno in questa parte dell’opera, il ricorso di Ramusio alla testimonianza di V (Andreose, Barbieri 2011, pp. 107-111).

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Il libro III. [EB]

I quarantasei capitoli del III libro (che nella princeps presentano un errore di numerazione qui corretto: i capp. «Del regno di Coulam» f. 56r / «Di Cumari» f. 55v – montati in fogli invertiti presentano entrambi l’indicazione «25») sono allineati, per selezione e ordine della materia, al modello di P (a sua volta apografo di VA). Si tratta di una scelta consapevole, i cui effetti sono riconoscibili in più punti: (1) R III 43, «Di Ormus» nasce dal montaggio di tre sezioni distinte: la prima ed eponima, assente in P-VA e corrispondente ai quattro quinti di F CXCVII «Ci devise de la cité de Curmos», la seconda, coincidente con P III 47 «De regione quadam, ubi Tartari habitant in aquilonari plaga», e la terza con P III 48 «De regione alia, ad quam propter lutum et glacie difficilis est accessus». (2) Pur avendo a disposizione una fonte alternativa a P (quella da cui sono tratte le informazioni su Hormuz), Ramusio segue P anche nell’omissione di F CXCVIII-CCXV (guerre tra Caidu e Qubilai, e guerra di successione nell’ilkhanato di Persia [1284]). (3) Identica attitudine nella conclusione (lo si è già detto in par. 2), imbastita su R III 45 «Della regione detta delle Tenebre» (= P III 49 «De regione tenebrarum» / VA CLIV «Della Oschurità, dove non àno mai la luxe del sol») e R III 46 «Della provincia di Rossia» (= P III 50 «De provincia Ruthenorum» / VA CLV «De Rosia, che è la dredana provinzia de questo libro»), a cui corrispondono F CCXVII («Ci devise de la provence de Oscurité») e CCXVIII («Ci devise de la grant provence de Rosie e de ses jens»): non c’è traccia, nella linea VA-P-R, dei quattordici capitoli (F CCXIX-CCXXXII) dedicati (tutti tranne il primo) ai conflitti tra i Tartari di Ponente.

D’altra parte, la collazione con le sue fonti permise a Ramusio l’integrazione e il riordino del materiale che gli veniva da P, in uno sforzo evidente di recupero di tutte le schede corografiche attestate nella tradizione a lui nota (con il risultato indiretto che il III libro ha un perimetro coincidente – almeno per la parte corografica – con quello proprio di F, redazione a lui ignota). Qualche dettaglio. (1) Integrazione di dati. Oltre alla già citata prima parte di R III 43 non vengono da P (silente in tutti casi) i capp. R III 23 (Zeilan), R III 24 (Cael), R III 42 (Dulfar), R III 43 (Calaiati). A questi si aggiunga il recupero (per forma e contenuto della serie originale dei capp. R III 30 (Canam), R III 31 (Combaia), R III 32 (Servenath) e R III 33 (Chesmacoran), omessi da Pipino e sostituiti in III 36 («De regnis Thana, Cambaeth, Resmacora») dal sommario di VA CXLVI. (2) Riordino dei materiali. P III 39-40 sono riuniti in R III 36 (Magastar), corrispondente a F CXC; la seconda parte di P III 43 e i capp. 44-45 sono riuniti in R III 39 (Abascie = F CXCIII); contro P III 46 (= VA CLII), Ramusio mantiene distinta la materia di R III 40 e R III 41 (Adem ed Escier).

L’analisi di R III 5 (sezione assente in F, e non solo in VA/P) permette di riconoscere in Z la fonte principale alternativa a P nella stesura del III libro. Oltre a essere il modello di riferimento per la composizione dei capitoli assenti in P, Z serve innanzitutto a colmare le “lacune” della traduzione di Pipino in singole tessere, siano esse comuni anche a F, V etc. (vd. p. es. le note in R III 22, R III 24, R III 35, R III 46), o caratteristiche dei soli VA/P (vd. p. es. le note ai capp. 3 3, 30 1 e 30 2); ma non solo: in moltissimi casi Z rappresenta la fonte da cui attingere una lezione sostitutiva a quella fissata da Pipino (vd. p. es. le note ai capp. 36 3, e più in generale il commento ai capp. 7 e 18).

Come si vede, la situazione del III libro non tradisce una fenomenologia compositiva diversa da quella individuata nei due precedenti. Non stupirà quindi ritrovare, nel suo tessuto, anche tracce significative (ma minoritarie, nettamente minoritarie rispetto a Z) dell’uso della redazione VB; procedendo anche qui per citazioni non esaustive, si potrà osservare che esse ricorrono perché portatrici di informazioni assenti nelle altre fonti a disposizione dell’umanista (vd. p.es. i capp. 13 8, e 37 7); e in certi casi la loro adozione impone a Ramusio soluzioni innovative per definizione e ordine delle informazioni (un caso particolarmente importante è quello costituito dalla prima parte del cap. 34, che trova nell’accordo tra P e VB nell’ordine delle informazioni un’ottima ragione per integrare lo schema della prima fonte coi dettagli della seconda). E diversamente da quanto suggeriscono, più o meno cautamente, Mascherpa e Andreose, risulta di fatto impossibile ammettere che Ramusio utilizzasse, oltre a VB, pure l’epitome latina L e la redazione veneziana V. I luoghi utilizzabili in tal senso sono pochi, privi di spiccata identità (non essendo mai testis unus, ma sempre in concorrenza con altri, particolarmente con Z), e caratterizzati da una fisionomia tale da non escludere mai un’eziologia poligenetica.

Il contributo di P al III libro risulta, in fin dei conti, piuttosto modesto: la versione di Pipino fornì lo scheletro basilare – comunque integrato dalle risultanze della collazione con le altri fonti –, ma non il contenuto informativo. Questo non significa che il testo di P sia del tutto assente: Ramusio ne ricavò tessere di varia dimensione, la cui selezione dipese meno da un’inerziale fedeltà al modello che da una consapevole riflessione sul merito (vedi p. es. i casi discussi nei capp. 8 5, 31 1-2, 36 1-2). E come si è già detto, il ricorso a P diviene sistematico nei capp. conclusivi, 45 e 46, in cui il testo di Pipino è tradotto alla lettera. L’abbandono di Z in questa zona non è insignificante: il suo cap. 165 – in cui «[…] naratur de provincia Russie» – è uno dei luoghi in cui la redazione latina più si divarica dal resto della tradizione poliana, pure (e non solo) per le sue ampie dimensioni e le informazioni esclusive. Ramusio chiude i Viaggi lì dove Z inizia il proprio “supplemento”: se non si vuole ipotizzare che l’esemplare a sua disposizione fosse lacunoso, bisognerà ammettere che le ragioni della rinuncia restano per noi definitivamente irraggiungibili: forse motivate dalla volontà di evitare sbilanciamenti strutturali, componendo un capitolo troppo “pesante” rispetto alla serie precedente, o da una sorta di estrema “fedeltà” alla lezione della versione più diffusa – e forse per questo più “autorevole” agli occhi dell’umanista – del Milione.

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